Cultura

“Da Ruvo all’Europa sulle ali della scienza”, l’omaggio del professor Iurilli a Domenico Cotugno

La Redazione
In sinergia con Napoli si costituirà, su idea del dottor Santi Zizzo, un comitato promotore e organizzatore di eventi celebrativi per il bicentenario della morte dell'illustre medico, avvenuta il 6 ottobre 1822
scrivi un commento 801

Il 29 gennaio 1736 a Ruvo di Puglia nasceva il medico Domenico Cotugno: il professor Antonio Iurilli lo omaggia dedicandogli il saggio "Domenico Cotugno: da Ruvo all'Europa sulle ali della scienza medica". «Ma quest’anno 2022 in corso – spiega Iurilli – coincide col bicentenario della morte (avvenuta il 6 ottobre 1822). Un evento culturale per il quale si stanno promuovendo eventi celebrativi. In questo anno  che potremmo definire "cotugnano", i concittadini lo ricordino come eccellenza scientifica della Città e sappiano quel che si intende fare per ricordarlo». Di seguito il saggio

«Quando – scrive Iurilli – in occasione del duecentocinquantenario della sua nascita (1986), pubblicai con mia moglie, presso l’editore Lacaita, un volume antologico di tutte le opere di Domenico Cotugno, il professor Giuseppe De Benedictis, prestigioso anatomo-patologo dell’Ateneo barese, da me officiato in veste di prefatore dell’opera, non nascose nel suo scritto le sue perplessità sul comportamento tenuto dal grande scienziato ruvestino nei confronti della sua terra di origine: nei confronti di quella Ruvo che lo aveva generato e formato fino al livello scolastico che la periferia del Regno poteva assicurare.

Rimarcava, insomma, il fatto che, una volta partito, giovane promettente, dalla sua città natale alla volta di Napoli, Cotugno non vi era mai più tornato, pur avendo coltivato per tutta la vita, con zelo tutto ruvestino e contando sulla devozione del nipote Pietro, l’interesse per le sue terre. Non vi era tornato –scriveva con puntiglio quasi censorio De Benedictis– nemmeno quando, medico di corte, si era imbarcato a Barletta sul vascello reale diretto a Fiume, da dove i sovrani di Napoli avrebbero raggiunto Vienna perché le loro due figlie principesse, Maria Teresa e Maria Ludovica, impalmassero i due rampolli dell’imperatore Leopoldo II, Francesco e Ferdinando, in forza di un contratto matrimoniale dai forti risvolti politici, propiziato dalla mediazione astuta del marchese di Gallo. Per De Benedictis quella del Cotugno era stata, insomma, una ingrata, ingiustificata indifferenza alle sue radici.

Se non fosse prematuramente scomparso, il professor De Benedictis avrebbe forse trovato conforto alla sua delusione leggendo alcune righe che, inaspettatamente, dedicò a Cotugno, alcuni anni dopo, nientemeno Andrea Camilleri introducendo la Storia dell’Ospedale "Cotugno" di Napoli di Alfredo Bottone e Giuseppe Morelli: "La scheda su di lui [Cotugno] che i lettori troveranno all’interno del libro – scrive Camilleri– asserisce con una certa discrezione che egli si mantenne agli studi “in maniera modesta”. No, si mantenne a pane e fichi secchi, letteralmente. Sveniva talvolta per la fame. E riuscì a diventare un luminare della medicina, le sue pubblicazioni divennero testi fondamentali per gli studiosi europei".

Avrebbe insomma scoperto – il De Benedictis – che il grande scrittore siciliano, valorizzando un piccolo aneddoto biografico, aveva pennellato con pochi tratti ma con fine intuito, l’immagine di un autentico ruvestino, rimasto tale anche sotto il luccichio di una prestigiosa carriera: l’immagine di un ruvestino che, come diceva di sé un conterraneo, l’abate Gimma, aveva consumato nella sua vita più olio (quello del lume per studiare anche di notte) che vino.

Camilleri aveva insomma saputo delineare l’immagine di un ruvestino doc, retto e severo prima con sé stesso, poi con gli altri, immune dalle lusinghe di uno status sociale e professionale che gli riconosceva a Napoli un potere pari a quello dell’Onnipotente: "I napoletani non vanno in Paradiso senza il lasciapassare di Cotugno". In quell’immagine di severa parsimonia e di dedizione al lavoro il Cotugno era, dunque, rimasto ruvestino anche senza mai riattingere fisicamente alla terra delle sue radici.

Forse impressionato dalla stessa immagine di scienziato senza orpelli, anche un altro grande scrittore, Enzo Striano, rappresenta Cotugno, in un romanzo sulla rivoluzione napoletana del ’99 (Il resto di niente), alto e imparruccato mentre, durante una festa a corte, osa puntare, con minacciosa severità, l’indice a mo’ di pistola nel ventre obeso nientemeno del cardinale Ruffo, del sanguinario trascinatore della reazione sanfedista. Lo immagina, cioè, animato da quel senso di giustizia nei confronti della ferocia controrivoluzionaria del Ruffo; animato da quella equidistanza saggiamente moderata sia dall’ormai insostenibile conservatorismo borbonico, sia dalle intemperanze astratte dei giacobini napoletani: anche questo un tratto caratteriale riconducibile a quella medietas tipica del conservatorismo identitario che fa del ruvestino, anche umile, un aristocratico senza blasone.

Quella fama Cotugno se l’era conquistata in una Napoli che da sfarzosamente spagnola e cupamente controriformista si era fatta a metà Settecento fervidamente illuministica. Quella fama se l’era conquistata negli anni riformatori di Carlo III, di Bernardo Tanucci, di Antonio Genovesi, di Gaetano Filangieri, di Ferdinando Galiani: insomma in quella Napoli dei lumi che strizzava l’occhio a Parigi e competeva per modernità con la Milano asburgico-teresiana, in un momento particolarmente felice della sua storia eternamente chiaroscurale.

Quel precoce regnicolo di umilissime origini, approdato nella Capitale dalla periferia adriatica per studiarvi Medicina, aveva già pronte, non ancora trentenne, due sensazionali scoperte anatomiche, frutto di una rivoluzione nel metodo di indagare la meravigliosa "fabbrica del corpo umano", cui era giunto dividendosi fra corsia e tavolo settorio nel più grande ospedale della città, gli Incurabili: due scoperte che promettevano di rinverdire i fasti della Scuola Medica salernitana e di sintonizzare la cultura sanitaria del Mezzogiorno con le scuole mediche più avanzate d’Italia e d’Europa, dove la ricerca integrata con la clinica era metodo già ampiamente praticato.

Non è allora un caso che i fratelli Simone, potenti editori napoletani al servizio dell’Università, accolgano quelle scoperte (non di un barone, ma di un giovane ricercatore "non strutturato") in due agili libri in ottavo (il formato della divulgazione colta) che esaltavano con la raffinatezza delle illustrazioni di Domenico Cirillo e delle incisioni di un maestro napoletano del bulino, Benedetto Cimarelli, proprio il valore innovativo delle tecniche settorie dispiegate da Cotugno.

Rigorosamente latini, il De aquaeductibus auris humanae internae anatomica dissertatio e il De ischiade nervosa commentarius rivoluzionavano l’uno le teorie storiche sulla fisiologia dell’udito; l’altro le conoscenze sulle cause neurofisiologiche della sciatalgia. La prima scoperta si era avvantaggiata della riforma borbonica delle pratiche settorie che, superando secolari pregiudizi confessionali, autorizzava l’immediato sezionamento dei cadaveri. La seconda era emersa dal contatto ospedaliero del Cotugno con centinaia di napoletani sciatalgici, cui l’unico sollievo era offerto dal contatto dell’arto dolente col pavimento freddo della corsia. L’esperienza sul campo aveva poi prodotto un valore aggiunto: la scoperta della continuità anatomica del sistema cefalo-rachidiano, comprovata dalla circolazione di un liquido che la comunità scientifica europea avrebbe denominato eponimicamente liquor Cotunnii.

Frattanto, sempre maneggiando il bisturi più che i libri, Cotugno aveva individuato l’esatto percorso del nervo naso-palatino facendolo responsabile della fisiologia dello sternuto e suggerendo una tecnica infallibile per reprimerlo. E aveva intuito, precorrendo Luigi Galvani, la conducibilità elettrica dei nervi. Aveva, infine, aggiunto alle intoccabili teorie di William Harvey sulla circolazione preziose osservazioni anatomiche sul ritorno venoso del sangue. E non aveva esitato a mettere personalmente quelle scoperte sotto gli occhi della comunità scientifica nazionale, specialmente di quella, temutissima, veneto-padovana dominata da «Sua Maestà Anatomica» Giambattista Morgagni. Lo aveva fatto durante un affascinante viaggio intellettuale nell’Italia di secondo Settecento, del quale ha lasciato una deliziosa memoria autografa: l’Iter Italicum Patavinum.

Di esperienza, di empiria si nutrì, del resto, tutta la sua lunga carriera di medico e di scienziato: una carriera che sfilò indenne fra l’alterna onnipotenza dei Borboni, dei rivoluzionari repubblicani, dei francesi, tutti rassicurati dalla sua moderazione, tutti concordi nell’affidargli prestigiose e impegnative cariche all’interno del sistema sanitario e scolastico del Regno; tutti indifferenti alle sue, come ho detto, "rubastinamente" indecifrabili simpatie ideologiche, eccetto quando, nei giorni caldi della Rivoluzione, fu scoperta una sua corrispondenza con la regina esule a Palermo. All’intimazione del tribunale di svelarne i contenuti egli oppose una fiera resistenza deontologica. La corrispondenza con la regina era, infatti, tutta sanitaria e Cotugno, pur rischiando la condanna a morte se non ne avesse svelato il contenuto, ne difese la riservatezza affermando che “gli incomodi di salute che soffrono le donne non si debbono giammai dire in pubblico”. Specialmente se la donna è la regina.

Grazie a questo suo genetico equilibrio, fu nei suoi lunghi e operosi anni primo presidente dell’Istituto d’Incoraggiamento (una sorta di ente promotore della ricerca scientifica); archiatra e membro del Consiglio Superiore di Sanità; presidente dell’Accademia delle Scienze; membro della Giunta per la riforma generale della pubblica istruzione; infine rettore dell’Ateneo federiciano e protomedico dei sovrani. Decisiva (per quanto controversa) fu la sua strategia per frenare a Napoli il contagio della tisi e la diffusione del vaiolo: una strategia piena di onestà e di equilibrio, che suona eticamente quanto mai attuale in questi giorni funestati dai reciproci anatemi dei vaccinati e dei no-vax, e avvolti dalle ombre di un gigantesco business internazionale che governa di fatto la pandemia e tiene la scienza in ostaggio. Anche la strategia di Cotugno impattò contro i poteri forti della sanità partenopea.

E di un appassionato richiamo all’esperienza, non all’astratta dottrina, nella pratica medica è intrisa una sua prolusione (Dello spirito della medicina) destinata agli allievi del Reale Collegio medico-chirurgico di Napoli: una breve ma intensa scrittura che Benedetto Vulpes definì «leggi delle dodici tavole della Medicina», e che traghetta lo sperimentalismo illuministico verso l’ideologia medica positivistica, consegnata alla celebre Introduction à l’étude de la Médicine expérimentale di Claude Bernard, che con quella scrittura sembra avere più di un debito. Scrive Cotugno: "La medicina non è una scienza, è solo una cognizione: sarebbe desiderabile che divenisse capace di essere dimostrativa, ma non sembra fatta per arrivarci. La medicina non ammette che pure conoscenze. Conoscenze di mali, conoscenze d’aiuti. La medicina vuol fatti e non parole. E questo spirito le è tanto proprio ed intrinseco, che qualunque cognizione entra in lei, se non è cognizione di fatti, la rigetta come inutile e spuria". Un lucido precorrimento delle tesi empiristiche che il celebre Cabanis affidò anni dopo al fondamentale Du degré de la cértitude de la Médicine.

Da buon rubastino, Cotugno ebbe anche il genio dell’accumulo antiquario di vasi, di tele, di bronzi, ma soprattutto di libri. Ormai attempato e pieno di onori, e forse smanioso di blasonarsi, egli impalmò una Ruffo di Calabria: un matrimonio chiacchierato che lo allontanò dalla corsia e lo trasformò in incipriato guaritore dell’aristocrazia cittadina. Venalissima, la consorte piombò, appena morto il marito, sulla sua cospicua eredità tentando giudiziariamente di estromettere gli eredi ruvestini. Il risultato fu la dispersione di quelle raccolte, battute dappertutto. Per fortuna (ma è magra consolazione) molti di quei libri finirono in buone mani: nella Biblioteca Nazionale di Napoli e nella biblioteca privata di Benedetto Croce. Ma a sopravvivere allo scempio coniugale e a riprodursi degnamente nel suo ceppo rubastino fu il suo gene archeologico. Si riprodusse in quel pronipote Giovanni Jatta, frattanto divenuto principe del Foro partenopeo, che con commovente devozione celebra Cotugno nel Cenno storico sull’antichissima città di Ruvo come nume tutelare della comunità cittadina, e che, sicuramente contagiato dall’esempio del prozio, concepì a Napoli, forse proprio nella sua dimora-museo, quel forziere di bellezza magnogreca che è l’orgoglio della nostra città.

Ora, non è retorica affermare che questi stessi sentimenti di ammirazione e di conservazione della memoria identitaria devono indurci, in questa occasione centenaria, a rinnovare l’ammirazione e la memoria per questo illustre ruvestino. È dunque quanto mai encomiabile la costituzione di un comitato promotore e organizzatore di eventi celebrativi che il dottor Santi Zizzo ha concepito e sta mettendo in atto in sinergia con la città di Napoli (con la quale Ruvo, nel nome di Cotugno, potrebbe stabilire un gemellaggio), col fine di legare l’occasione centenaria alla istituzione di un premio destinato a un’eccellenza del campo sanitario, e al bando di un concorso riservato agli studenti degli istituti di secondo grado che valorizzi presso i giovani il messaggio umano e scientifico che scaturisce dalle opere del Cotugno».

sabato 29 Gennaio 2022

Notifiche
Notifica di
guest
0 Commenti
Inline Feedbacks
Vedi tutti i commenti
Santi Zizzo
Santi Zizzo
2 anni fa

Grazie al prof Iurilli componente il COMITATO COTUGNO avremo modo di rieditare un libro dedicato all'opera del Cotugno. Celebrando così ial meglio il nostro illustre concittadino.