30 anni fa l'inaugurazione del Museo archeologico nazionale Jatta © Antonio Iurilli
L'anniversario

Antonio Iurilli: «Una pagina ancora viva di storia cittadina scritta 30 anni fa: l’inaugurazione del Museo Archeologico Nazionale Jatta»

Il professor Antonio Iurilli offre ai lettori alcune riflessioni sulla storia culturale del Museo Jatta, e qualche «rapsodica considerazione» sul ruolo che, in quella storia, stanno svolgendo, o potrebbero svolgere, i restauri in corso
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Era l’11 giugno 1993 quando il Museo archeologico nazionale “Jatta” fu trasferito allo Stato.

Per l’occasione, il professor Antonio Iurilli offre ai lettori alcune riflessioni sulla sua storia culturale, e qualche «rapsodica considerazione» sul ruolo che, in quella storia, stanno svolgendo, o potrebbero svolgere, i restauri in corso.

«“Mandatela al diavolo….”. Fu questo il titolo cattivante di una trasmissione televisiva che la Rai di Bari – scrive Iurilli – confezionò all’inizio degli anni settanta del secolo scorso, appena nato il decentramento regionale della TV di Stato. Fu un godibile, fortunato precorrimento delle attuali “Striscia”, “Iene” e affini che oggi imperversano sulle reti commerciali. Il giornalista Costantino Foschini, pittorescamente abbigliato a diavolo, entrava furtivo, come il Belfagor machiavelliano, nei fatti locali carichi di sospetti che il pubblico segnalava (mandandoli appunto… “al diavolo”), per smascherarne, con verve ironicamente “diabolica”, le recondite verità.

Ho ricordato questo gustoso scampolo di protostoria della Tv regionale perché la prima incursione che il Diavolo/Foschini fece nei problemi scottanti e irrisolti del territorio, fu proprio nella vexata quaestio della “sorte” del Museo “Jatta”. Ne nacque una graffiante intervista all’allora sindaco di Ruvo Domenico Mastrorilli sull’incerto, controverso destino di quell’insigne bene culturale, sul quale incombevano decenni di estenuanti trattative, di stravaganti proposte, di traumatiche ipotesi di alienazione: segni, tutti, di una sua “genetica” fragilità che ne insidiava la pur limpida, inequivocabile identità cittadina. Su quell’inquietante proscenio si erano mosse per anni figure carismatiche del governo cittadino e della famiglia erede della collezione: dai sindaci Michele De Venuto e Giovanni Bernocco; a Giovanni Jatta e ad altri discendenti, mentre sullo sfondo recitavano i loro ruoli autorevoli figure istituzionali, e si imponeva il ruolo mecenatesco nientemeno di Aldo Moro, promotore di un finanziamento pubblico per l’acquisizione della Collezione allo Stato, contestuale alla costruzione di una nuova sede museale.

Quelle contorte vicende hanno conosciuto una provvidenziale, sofferta catarsi esattamente l’undici giugno di trent’anni fa, in un afoso pomeriggio consumatosi in un altro “monumento”, oggi alla deriva (il Cinema Vittoria, glorioso antesignano della cultura cinematografica cittadina), e tuttavia onorato da una plebiscitaria, inconsueta partecipazione popolare, ma anche da un ricco e rappresentativo parterre istituzionale, degni entrambi di un evento percepito come epocale per la storia della città.

Alla presenza di Francesco Sisinni, direttore generale del Ministero per i Beni Culturali, il Museo fu ufficialmente consegnato allo Stato, e dunque destinato alla fruizione pubblica. Ma l’alto valore formale dell’evento si arricchì di un momento di riflessione scientifica sulla storia di quel monumento, sulla sua genesi, sull’identità culturale di chi lo aveva fondato e di chi lo aveva accresciuto. Le relazioni di Giuseppe Andreassi, direttore della Soprintendenza Archeologica della Puglia; di Raffaella Cassano e di Antonio Iurilli, rispettivamente professori di Archeologia Classica e di Letteratura italiana nell’Università di Bari, andarono oltre lo stereotipo culto filopatristico, e indagarono le matrici culturali dell’indomito collezionismo di una famiglia, benemerita per aver immesso i frutti di quel collezionismo nel patrimonio genetico della comunità cittadina.

Da quelle relazioni emersero, nella loro ricca complessità, le ragioni culturali di quell’impareggiabile naos domestico, costruito da Giovanni Jatta senior e Giovanni Jatta junior non con il gusto di improvvisati collezionisti dell’antico in un momento della storia culturale europea in cui l’antiquaria era spesso uno status symbol, spesso naïf ed estemporaneo, della borghesia ricca, ma con la consapevolezza di intellettuali, cui i “due secoli, l’un contro l’altro armati” avevano dettato, alla pari, etica e cultura.

E dunque quell’evento inaugurale fu l’occasione per riscrivere pagine fondamentali della storia di quel tempio dell’identità cittadina, e per chiedersi quale humus culturale aveva nutrito, lungo quasi un secolo, la passione archeologica dei due Jatta. Per chiedersi quale fu, al di là della pulsione tipica del collezionista di inseguire il valore onnicomprensivo e spesso ingenuo della preziosa rarità, il loro rapporto con l’antico. Per chiedersi a quale prezzo, non solo monetario, quei due archeologi dilettanti (dilettanti non nel senso limitativo che volgarmente si dà al termine, ma nel senso etimologico di “coloro che traggono diletto” dalle loro intraprese) tradussero in valore di scambio l’estro mitopoietico degli antichi figuli, decidendo, in ragione di un gusto antiquario, ma anche di specifici interessi culturali, di investire, per esempio, tremila ducati per il Ratto delle Leucippidi; quattromila per il mito delle Esperidi; diecimila (il prezzo assolutamente più alto) per il mito di Talos, nella cui cui languida posa di gigante morente Giovanni forse vedeva non la morte di un eroe, ma l’archetipo della morte leziosa dei personaggi del teatro di Metastasio, assai in voga nel suo tempo, travolti dagli inganni delle passioni. Prezzi, dunque, imposti non solo dal valore artistico e dalla rarità del pezzo, ma anche dalla capacità del mito raffigurato di appagare, se non di esaltare i loro gusti, la loro cultura.

Che, del resto, Giovanni senior fosse un giovane promettente avviato dalla famiglia alla carriera forense se ne era accorta già Margherita Pignatelli, consorte di Riccardo Carafa, feudatario di Ruvo, quando al cospetto di quel giovane che, secondo il costume feudale, le chiedeva congedo per andare a studiare Diritto a Napoli, sprezzante sentenziò: “Gli avvocati un giorno saranno la rovina di nostra Casa!”. “Parole profetiche” le definì Giulio Petroni, che riporta l’aneddoto.

Ho voluto ricordarlo, quell’aneddoto, non tanto perché esso ribadisce quella che a metà Settecento era ormai l’insanabile frattura fra ceto forense e antica nobiltà feudale, quanto perché, nell’intenzione del Petroni, quell’aneddoto presagisce la cifra più alta della filopatria dello Jatta: l’aver messo a disposizione della sua città le sue competenze giuridiche per liberarla proprio dalle angherie feudali della casa Carafa, in una dimensione liberal-riformistica di matrice sì illuministica, ma ormai sensibile al culto romantico per la piccola patria, la cui capacità di affrancamento dalla condizione feudale si nutre proprio della grandezza del suo passato, di quel passato che legittima la sua aspirazione alla libertà più di quanto possano le carte indagate con acribia forense negli archivi.

Negli anni in cui Giovanni primeggiava nel Foro di Napoli, l’archeologia partenopea viveva un momento particolarmente fecondo. L’antica grandezza, greca e poi latina, della Campania felix accendeva in egual misura il regalismo borbonico e i furori giacobini che sarebbero sfociati nella rivoluzione del ’99: un inconsueto connubio ideologico che nutrì, proprio in ragione della sua polarità, un’intensa stagione di interessi antiquari.

È in quella temperie culturale, sulla quale cominciava a soffiare anche il culto romantico per la “piccola patria”, che Giovanni senior concepisce la prima storia della sua città: quel Cenno storico sull’antichissima città di Ruvo, che non a caso si conclude con l’elogio del più illustre rubastino, Domenico Cotugno, suo prozio, celebrato non solo come genio della scienza medica partenopea, ma anche come raffinato collezionista di antichità, e anzi come archetipo e mentore del suo stesso iter antiquarium.

Questa religione laica dei Lari professata da Giovanni senior alle soglie della matura storiografia romantica lo porta, insomma, a concepire la storia della sua città come il costante affermarsi della sua antica nobiltà: una nobiltà di cui sono testimonianza soprattutto quei monumenti fittili che le sue trepide mani accarezzavano appena restituite dalle viscere della terra degli avi. Sicché l’imago picta dei figuli magno-greci non è per lui soltanto un godimento degli occhi e lo stupore di vederla affiorare intatta dopo secoli. È la rappresentazione figurale di quel sistema etico-religioso originario, del quale egli saggia il radicamento nella storia millenaria della sua città e la sua tenuta nel tempo.

L’esuberante mondo mitografico che egli contempla sui suoi crateri si fa allora Pantheon della memoria cittadina, monumento laico della sua storia. Per questo egli conforma il Cenno storico al modello storiografico umanistico che loda la città per la sua antichità, piuttosto che al modello agiografico-cattolico che identifica la grandezza della città con la fama del suo santo patrono. È anzi così forte in lui il bisogno di celebrare le origini peucete e magno-greche della sua città, da rendere diseguale l’ordito storiografico dell’opera, che corre veloce sull’età romana, giudicata autoritaria e bellicosa, e persino su quel Medioevo, illuministicamente giudicato oscurantista, cui pure la città deve il suo monumento più insigne, mentre si distende compiaciuta nelle pagine che dedica al culto storiografico delle origini.

Persino quando Giovanni si sofferma, nelle ultime pagine del Cenno storico, a raccontare i riflessi rubastini della rivoluzione napoletana del Novantanove, e a censurare quei concittadini, giacobini o sanfedisti che fossero, rei di aver rischiato di vanificare, col loro velleitario radicalismo, i frutti della sua azione antifeudale contro i Carafa, quelle pagine fremono di patriottismo di matrice ellenica.

E non a caso, proprio in quelle pagine, Giovanni tesse un inatteso elogio di Ettore Carafa, respingendo sdegnato l’immagine di sanguinario eversore costruita da Carlo Botta sulla notizia del presunto incendio da lui ordinato di Andria, sua città natale, e restituendogli invece la dignità di un eroe che difende, come un eroe ellenico, la sua patria, la terra dei suoi avi. Un giudizio storico, questo, che mette in ombra le sue prevedibili riserve su un rampollo di antica feudalità convertitosi all’utopia repubblicano-giacobina fino a morirne.

Profondamente permeato di riformismo illuministico, e dunque ansioso di trasmetterlo al suo adorato nipote Giovannino, cui aveva dedicato il Cenno storico come la summa sapienziale di un’etica patriottica assai più ellenizzante che giacobina, Giovanni non avrebbe mai potuto sospettare che la sua creatura morale, il “dimidium animae suae”, avrebbe collocato Ettore Carafa nella “Candida Rosa” dei beati che, sul modello dantesco, circondano in un Empireo tutto giacobino la Dea Libertà. E che lo avrebbe fatto in uno straordinario, sconosciuto poemetto che intitolò al calabro-albanese Agesilao Milano, un “terrorista” che aveva inutilmente attentato alla vita dell’ultimo re Borbone. Non lo avrebbe sospettato nemmeno la madre, Giulia Viesti, donna colta e sensibilmente complice degli ardori antiquari della gens Jatta, della quale era entrata con fine umiltà a far parte.

In realtà, quel poemetto, utile a segnare una tappa non trascurabile del riuso ottocentesco di Dante, è tutt’altro che un’apoteosi del giacobinismo rivoluzionario. La sua cifra più interessante è infatti quella di una finta profezia degli sviluppi che avrebbe assunto il Risorgimento nazionale. Finta profezia, perché l’opera esce nel 1863, quando l’Unità d’Italia si è già compiuta e il suo futuro già tracciato. E dunque anche la sua cifra eversiva si assottiglia. Ma non si assottiglia la capacità di quell’opera di documentare i sentimenti politici postunitari coltivati da Giovannino.

Ci affascina allora scoprire che, coerente con la fictio dantesca, Giovannino assegna al Milano, come guida del suo viaggio ultraterreno, Vincenzo Gioberti, simbolo del patriottismo cattolico-liberale professato dalla più avanzata borghesia napoletana. Ma è un Gioberti revisionista quello cui l’autore mette in bocca una solenne sconfessione del suo stesso progetto federalista e neoguelfo. È un Gioberti che accusa di ambiguità papa Pio IX nel processo risorgimentale parlando la lingua del riformismo laico-illuminista che Giovannino aveva assimilato dallo zio Giovanni. È un Gioberti che estromette dal futuro assetto unitario della Nazione sia l’ipoteca cattolica, sia l’ipoteca federalista, sia il repubblicanesimo mazziniano. È, insomma, un Gioberti che spiana la strada all’idea centrale che Giovannino coltiva del futuro dell’Italia unita: quella dell’egemonia sabauda sulla costruzione dello Stato unitario.

Ed è proprio quell’auspicata pax sabauda a sottrarre Giovannino all’impegno civile e a collocarlo nel buen retiro di Parco del Conte, durante il quale prioritario, se non assoluto, diventa il mandato ricevuto dallo zio di incrementare la collezione di famiglia: un impegno fattosi nel tempo sempre più oneroso, anche in ragione dei malumori che gli stessi concittadini nutrivano verso il primato che la gens Jatta, proprio in forza dei meriti culturali che andava acquisendo, si era conquistato nei confronti della comunità cittadina, come lo stesso Giovannino lamenta in un piccante sfogo che prefigura una sorta di carattere ereditario del ruvese:

Altri erano a ciò negati [a vendere i reperti agli Jatta], malgrado che si fossero da noi pagati assai meglio di quello che si pagavano dai speculatori, e questa verità è stata confessata dagli stessi Ruvestini. L’unico principio di tal ripugnanza era che vi ha degli uomini, specialmente nei piccoli paesi, i quali non sanno che invidiare negli altri quella elevatezza di pensare, di cui non sono essi capaci.

Nasce in quel soggiorno operosamente arcadico, su quel balcone collinare che sancisce anche topograficamente la “sovranità” sociale della gens Jatta sul paese, la volontà di consolidare l’unità della collezione (consegna centrale nel testamento dello zio Giovanni) con un catalogo che ne documentasse i circa duemila pezzi in forma inventariale e descrittiva. Quel Catalogo, edito a Napoli nel 1869, dichiara già nel frontespizio di voler fornire una “breve spiegazione dei monumenti da servir di guida ai curiosi”: un termine (“curiosi”) caro alla divulgazione erudita del Seicento, che innerva la cultura di Giovannino.

Ma è sintomatico di uno preciso orientamento dell’opera l’esergo che riporta una citazione dalle Peintures des vases grecs di James Millingen inneggiante al particolare valore mitografico dei vasi di Ruvo: un orientamento che si conferma nella copiosa sezione degli indici, aperta da Giovannino proprio con un meticoloso indice tematico dei miti raffigurati nella collezione. Giovannino li inventaria assegnandone quaranta alle divinità, settanta agli eroi, venti ai mostri favolosi, venti agli “esseri ideali e personificazioni fantastiche”. E addirittura precisa di aver coltivato l’idea (poi abbandonata per una fruizione catalografica più semplificata) di un allestimento museale tassonomicamente organizzato secondo i temi mitologici cui si ispirano i reperti:

Volea, cioè, procedere per ordine mitologico o per via di Divinità, e mettere ogni rappresentazione ed ogni oggetto riferibile a ciascuna Divinità nella categoria a lei propria, dividendo i fatti degli Eroi o Semidei da quelli degli Dei medesimi.

È insomma il mito la cifra dominante del suo impegno catalografico, nella convinzione che le officine ceramiche rubastine fossero particolarmente inclini alla figurazione fittile dei miti. La cultura archeologica di Giovannino si fa allora emanazione della sua solida formazione classica, ma passa anche attraverso i capisaldi, cari alla cultura dello zio Giovanni, del filantropismo illuministico, incline a divulgare il sapere, considerato strumento primario di riscatto del Terzo Stato.

Per questo egli concepisce il suo Catalogo come ecphrasis, ovvero come traduzione verbale della figurazione fittile: una ‘traduzione’ che consente, attraverso la formalizzazione letteraria, la fruizione scritta, dunque divulgativa, del mito. La descrizione verbale dei miti figurati riesce inoltre a risarcire i limiti visivi, a lui già chiari, di una collezione ospitata in spazi troppo angusti.

Ora, non è un caso che Giovannino sottolinei, patriotticamente, la massiccia presenza del mito di Teseo nella produzione fittile rubastina: la presenza, cioè, di un mito che «si rendeva un soggetto eminentemente nazionale» in quanto (scrive) “abolì la tirannide, stabilì la democrazia, liberò la patria dal servile tributo dagli Ateniesi pagato a Minosse”. Un Teseo sabaudo, insomma, intriso in egual misura di liberté giacobina e di ‘libertà’ liberal-borghese, ma soprattutto ritrovato nei sentimenti libertari dei figuli rubastini molti secoli prima che lo spirito risorgimentale ne rilanciasse l’attualità. E non è un caso che Giovannino concluda:

Ora, il vedere quel mito con tanta frequenza espresso sui vasi di Ruvo, costituisce un altro non lieve argomento dell’origine attica di questa città, le quali cose tutte provano senza dubbio un sentimento profondo della propria antichità in un popolo che trasmette da una generazione all’altra consimili tradizioni.

Soffia in queste parole il vento di un culto profondo della ‘piccola patria’ rubastina, felicemente ibridato di Illuminismo e di Romanticismo, in contiguità con il culto della Grande Patria risorta. Ma risuona in quelle parole anche il monito ai concittadini a rispettare il loro grande, vincolante passato: quel passato che affiorava, grazie alla gens Jatta, dalle viscere della loro terra. Un passato figlio di quegli Ateniesi che quel Teseo onnipresente nella fantasia mitopoietica dei figuli rubastini aveva liberato dalla tirannide di Minosse. Era il suo un potente messaggio identitario che invitava i ruvestini a restare ancestralmente renitenti ad ogni forma di tirannide.

Oggi, a quasi due secoli dalla sua fondazione, e a trent’anni dalla sua nazionalizzazione, in un tempo avaro di sentimenti moralmente elevati e appiattito in una onnivora, boriosa ‘attualità’ senza storia, quel monumento conserva intatto il fascino del naos, del tempio dell’identità cittadina, anche per averne conservato l’originaria topografia.

Ma, in un ennesimo momento di svolta della sua storia secolare, costituito dai restauri in corso d’opera, restauri che ne certificano una sorta di incompiutezza rispetto ai ‘doveri’ pubblici cui oggi un museo è chiamato ad assolvere, forse sarebbe il caso di valutare, anche in ragione di un annunciato incremento del patrimonio fittile cittadino da ospitare altrove, e dunque destinato a creare una bipolarità topografica, turisticamente difficile da gestire, fra il contenitore storico e quello ‘moderno’, se quelle sobrie sale, quella essenziale boiserie, quelle discrete poltrone di velluto porpora sulle quali i padroni di casa intrattenevano Gregorovius e altri illustri visitatori di tutta Europa, possano oggi convivere con i moderni dettami di restyling museale senza perdere, comunque, la loro originaria identità: proprio quella identità che si è voluta preservare, a prezzo di non lievi rinunce, anche nello snodo cruciale del passaggio del Museo da privato a pubblico.

Ora, non c’è dubbio che l’identità originaria di quel Museo è l’identità di un’aristocratica wunderkammer di famiglia, che gli Jatta, col fine apporto di una donna, concepirono in un mistico recesso del Palazzo per viverla con un pizzico di fisiologico, legittimo narcisismo, e soprattutto nella voluttuosa solitudine del collezionista morbosamente compiaciuto di accarezzare i suoi pezzi e di fantasticarne la storia, in silente simbiosi coi fantasmi che forgiarono quelle figure senza tempo, forse ripetendo mentalmente, in quegli attimi di intima passione, i celebri versi con i quali Orazio chiedeva al volgo di stargli lontano e di tacere quando il demone della poesia gli prendeva l’anima.

Quanto di quella identità sia destinato a sopravvivere al necessario allineamento del Museo alle esigenze di una pur auspicata fruizione di massa, è dunque un dubbio legittimo almeno quanto legittime sono le sue “magnifiche sorti e progressive” che i restauri in corso stanno perseguendo. Un dubbio che potrebbe indurre a guardare a quel prestigioso contenitore culturale che è il Convento dei Domenicani come a un enciclopedico polo museale cittadino, capace di documentare, in una invidiabile unità spaziale, secoli di cultura figurativa locale».

domenica 11 Giugno 2023

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