L'opera letteraria

Antonio Iurilli: «Il mio Orazio». La fortuna nei secoli di un poeta metà pugliese, metà lucano

Veronique Fracchiolla
Veronique Fracchiolla
Statua di Orazio, a Venosa © Pixabay
In “Quinto Orazio Flacco - Annali delle edizioni a stampa (secoli XV-XVIII)”, il professor Antonio Iurilli ricostruisce il variegato mondo legato, nel corso dei secoli, alle edizioni delle opere di Orazio, il poeta che fece tappa a Ruvo
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«Un libro straordinario dunque questo, che consegnerà sicuramente Iurilli alla memoria dei secoli futuri, come il maggiore, più analitico e agguerrito sistematore della fortuna di un poeta che ha incontrato amatori in ogni stagione». Così Raffaele Nigro, sull’Avanti, nella sua rubrica “Controra” a proposito dell’opera del professor Antonio Iurilli, dedicata al celeberrimo poeta Orazio che, nella Satira V del I Libro, racconta di aver fatto tappa a Ruvo, stanco e spossato, per il lungo cammino, reso più difficile dalla pioggia.

Col professor Iurilli abbiamo parlato di “Quinto Orazio Flacco – Annali delle edizioni a stampa (secoli XV-XVIII)”, opera in due volumi (Edizioni Droz, Ginevra, Collana: Travaux d’Humanisme et Renaissance, 2017). La conversazione oltre a offrire numerosi spunti di riflessione sul valore del libro, diventa la narrazione di viaggi intercontinentali, dell’emozione di toccare antiche pagine su cui hanno posato le mani Tasso e Manzoni.

Nella sua opera lei fa un focus sulle figure – dagli editori, alle maestranze sino agli studiosi e collezionisti –  legate alle edizioni delle opere di Orazio nel corso dei secoli. Perché?

«Con Orazio ho scontato un debito antico, che risale agli anni del liceo, anni nutriti, all’Oriani di Corato, del magistero di Giuseppe Tandoi, il quale ai miti eversivi del Sessantotto (l’anno della mia maturità) preferiva i miti lirici di Orazio, e per questo ci impose di mandare a memoria tutti i suoi metri. Ma, al di là di quell’esercizio mnemonico, oggi inconcepibile, quel grande maestro ci impose la lettura di un saggio esemplare di Antonio Lapenna: Orazio e la morale europea, un saggio che, al cospetto di un’Europa che in quegli anni la contestazione giovanile sembrava voler di nuovo infiammare, rilessi più volte chiedendomi come un giovane, figlio di un umile liberto, metà lucano metà pugliese, nel quale tanti giovani delle nostre terre potrebbero identificarsi, trapiantato nella Roma imperiale di Augusto, avesse potuto attraversare per secoli, con la sua etica pagana e con la sublime levità della poesia, le fitte barriere di un’Europa cristiana sì, eppure lacerata da conflitti di ogni sorta, a cominciare proprio dai conflitti religiosi.

Mi chiedevo come avesse potuto un poeta annullare nei suoi versi immortali gli orgogli identitari di un intero continente che ancora oggi fatichiamo a domare, e costringere innumerevoli generazioni di scrittori, culturalmente e politicamente eterogenei, a ritrovare in quei versi una comune identità; come avesse potuto insomma, Orazio, esercitare un’amabile e incruenta dittatura etica e artistica sulle civiltà di popoli eternamente in conflitto. Tutto questo nel segno, solo e disarmato, della poesia.

Quei pensieri giovanili mi tornarono alla mente quando nel 1993, ormai non più giovane liceale, fui invitato a tenere una relazione al convegno mondiale per il bimillenario della morte di Orazio. Ritenni allora che forse era possibile, alle soglie del terzo millennio e a duemila anni da quella vicenda letteraria, trovare a quei pensieri giovanili qualche risposta tracciando un nuovo solco fra i tanti che da sempre hanno dissodato le terre di Orazio, in forza di un metodo che mi ero frattanto costruito con i miei studi napoletani di bibliologia.

Tentai insomma di dimostrare in quel convegno quanto, della secolare fortuna di Orazio nelle culture europee, sia nato nell’officina del tipografo o nella strategia commerciale dell’editore, in un’età particolarmente complessa della civiltà dell’Occidente: l’età del libro antico, che va convenzionalmente dal 1450 al 1800, un’età che vede irrompere nella cultura europea quell’homo typographicus (felice definizione di Marshall Mc Luhan), geneticamente modificato rispetto all’homo sapiens proprio dall’invenzione di Gutenberg: quella stampa a caratteri mobili che è stata forse la più grande rivoluzione di tutti i tempi.

Fu l’avvio di un arduo percorso nella fortuna del più grande poeta lirico dell’antichità, teso a ricostruire l’intreccio fra storia delle forme letterarie e iniziativa editoriale, nel tentativo di meglio definire le trame della ricezione nelle culture letterarie moderne di un grande modello di scrittura poetica antica, non solo attraverso il riuso che ne hanno fatto i poeti, ma anche attraverso l’esegesi, la traduzione, la parodia, l’adattamento musicale, la rilettura verbo-figurativa, e dunque attraverso la complessa identificazione dei protagonisti di quelle forme di ricezione: dai più noti esegeti, traduttori, parodisti, musicisti, ai meno noti, ma non meno importanti, editori, tipografi, illustratori.

Ma tentai soprattutto di capire perché, nell’età appunto del libro antico, Orazio sia stato, in Europa, fra gli autori più pubblicati. Tentai di capire perché tipografi e editori di tutto il continente lo avessero riproposto, lungo quattro secoli, circa tremila volte, in forme e per lettori sempre diversi. E dunque di capire, ricostruendo la sua fortuna editoriale, perché intorno ai suoi versi, nelle tipografie di tutta Europa, si siano affollati ben 233 commentatori, 445 traduttori, 29 compositori musicali, 89 incisori/disegnatori, oltre naturalmente a circa 1500 tipografi/editori. E di capire chi fossero costoro, pronti a unire intorno a un poeta antico, nel segno della sua antica identità, un’Europa che la politica e la religione andavano sempre più dividendo.

Mi tornava alla mente anche quel seducente paradosso di Jean Starobinski secondo il quale l’autore non è altro che il suo pubblico, e che il testo letterario vive e dura in forza di quella comunità di lettori che nei secoli lo leggono e lo “riusano” in forme e con intenti sempre diversi. E pensavo soprattutto a quei lettori che la grande invenzione di Johann Gutenberg aveva, a metà Quattrocento, accresciuto e profondamente modificato, sconvolgendo il rapporto fra scrittura e lettore, e di riflesso il rapporto fra conoscenza e consumo culturale.

Affiorava allora dalle ombre della storia un Orazio che la cultura rinascimentale aveva promosso, con la sua Ars Poetica, a maestro dei poeti, insuperabile modello di scrittura lirica, grande anche per aver saputo traghettare nella letteratura latina la tradizione letteraria greca. Affiorava un Orazio che i musicisti europei del Cinquecento, affascinati dal ritmo metrico dei suoi versi, mettevano in musica per il diletto delle corti. Affiorava un Orazio che la cultura gesuitica, pur “espurgandolo” dei versi giudicati osceni, considerava imprescindibile patrimonio retorico da insegnare nelle scuole della Compagnia di Gesù, anche in quelle che si venivano man mano fondando nelle Americhe colonizzate.

Affiorava un Orazio che la Controriforma aveva parodiato facendolo diventare cristiano fino a prestare i suoi versi all’innodica mariana. Affiorava un Orazio i cui immortali aforismi un grande pittore fiammingo, Otho Vaenius, maestro di Rubens, aveva tradotto in immagini in una preziosa edizione di primo Seicento che potetti descrivere nella Biblioteca Nazionale di Parigi guardato a vista da due impiegati. Affiorava un Orazio i cui versi sulla effimera bellezza delle donne diventavano armi incruente nelle mani delle prime femministe francesi intente a rivendicare presso il Re Sole una legislazione per loro dignitosa. Affiorava infine un Orazio che il Settecento aveva sintonizzato sul suo raffinato razionalismo e letto nei panni intimistici del “porco del gregge d’Epicuro” che insegna a “vivere nascondendosi”, come oracolo antico del moralismo letterario assunto a paradigma della coeva etica razionalistico-borghese (“mescolare l’utile al dolce”); o l’Orazio asservito al culto di Napoleone o al culto degli eroi della Rivoluzione Americana; o infine l’Orazio mito mondano dei salotti galanti, l’Orazio “lezioso, da cantare alla spinetta con la dama”, che “ingombrava le tasche” del cicisbeo, come crucciato diceva il moralista Parini; quell’Orazio che Giacomo Casanova chiamava “Mon ami Horace”; quell’Orazio del quale tutte le teste coronate d’Europa erano innamorate, tanto da finanziare una gigantesca operazione editoriale inglese che a metà del secolo offrì il suo corpus in una raffinatissima edizione illustrata da centinaia di pregevolissime, costosissime incisioni a bulino.

Per questo ho voluto ritrovare la fortuna di Orazio scavando nella storia del libro antico: una storia per lo più ignota, alla quale la scuola e la cultura di massa sono colpevolmente indifferenti. Sembra infatti difficile far passare l’idea che il libro antico è anch’esso un bene culturale alla pari di palazzi, tele e sculture, e che anzi è più complesso di quei beni culturali che morbosamente inseguiamo facendo la fila ai musei. Nessuna gita scolastica (pardon, “viaggio d’istruzione”) prevede la visita di una biblioteca storica. Il libro è invece un monumento più duraturo del bronzo, per togliere proprio a Orazio uno dei suoi più celebri aforismi. È un bene culturale più complesso e più pericoloso. Basta un confronto. I beni culturali, per così dire convenzionali, il Potere li trafuga; i libri li brucia. La pericolosità del libro sta già nel suo stesso nome. La parola latina liber (libro) è infatti pericolosamente omofona con l’aggettivo latino liber (libero). Dunque, come si intitola un bel libro di Luciano Canfora, il Libro è Libertà, e la libertà è percepita dal Potere (lo sappiamo bene) come pericolo.

È dunque iniziata in quell’ormai lontano 1993 la lunga avventura di questa mia opera che si è conclusa circa trent’anni dopo approdando a una casa editrice di prestigio internazionale: la Librairie Droz di Ginevra, specializzata in editoria bibliografica».

Come si articola l’opera e chi ne sono i destinatari?

«Disposti su due tomi per complessive 1565 pagine, i miei Annali delle edizioni di Orazio ricostruiscono la fortuna del Poeta di Venosa nelle culture di tutto il mondo attraverso il censimento delle edizioni a stampa del suo corpus pubblicate dal 1465 al 1800. Nove indici, alcuni dei quali biografici, ricostruiscono poi l’identità di tutti coloro i quali, a vario titolo, hanno contribuito nei secoli a editare Orazio: dal commentatore al traduttore, al pittore, all’incisore, al musicista, e naturalmente al tipografo e all’editore. L’opera è dunque utile a chiunque, da qualsiasi versante culturale, voglia indagare la fortuna di Orazio nei secoli XV-XVIII.

Il mio lavoro è iniziato in età, per così dire, preinformatica, quando non esistevano nel web i tanti database che oggi ci portano in casa cataloghi e repertori di ogni sorta. E dunque è stato necessario (e per il libro antico non è necessario, è un obbligo) esaminare e descrivere direttamente almeno il 90% delle edizioni consultando i materiali antichi di circa trecento biblioteche di tutto il mondo, alcune delle quali particolarmente generose di sorprese: a cominciare dalla Morgan Library, accolta nelle viscere di Manhattan, nella quale ho trovato un incunabolo (ovvero un “libro nella culla”, come si definiscono i primi libri, quelli stampati dal 1450 al 1500) sul quale aveva studiato Orazio Torquato Tasso, postillandone con una grafia tormentata alcuni versi; per finire alla Biblioteca Braidense di Milano, dove mi sono imbattuto nella secentina su cui ha studiato Orazio Alessandro Manzoni, che firma in calce la copia. Lunghi soggiorni di studio mi hanno poi consentito di tesaurizzare gli ingenti patrimoni oraziani della Biblioteca Apostolica Vaticana, delle Biblioteche Nazionali di Roma, Firenze, Parigi, Lovanio, Londra, Berlino, e soprattutto della Biblioteca Universitaria di Groningen in Olanda, che custodisce il fondo più ricco e prezioso di edizioni di Orazio (circa 1200) per una ragione che ha dell’incredibile: sono i libri che un ricco imprenditore edile della città comprò a fine Ottocento al figlio perché svolgesse al meglio la sua tesi di laurea sull’epodo II di Orazio, e che, finita la tesi, furono donati all’Università cittadina dove sono rimasti in letargo fino a un freddo febbraio del 2001, quando le mie mani li risvegliarono consentendo loro di riversare il fascino di quelle pagine che per un secolo e mezzo erano rimaste sepolte sotto la polvere.

Non sono stati comunque sempre idillici i rapporti con le biblioteche. La Biblioteca nazionale di Mosca, per esempio, dopo avermi promesso la descrizione dei materiali oraziani da essa posseduti a fronte di un compenso di 200 dollari (sic!), rifiutò la collaborazione. La ragione di questo singolare comportamento mi venne dalla Biblioteca Nazionale di Lipsia che, nel fornirmi l’elenco delle edizioni oraziane da essa possedute, precisò che alcune edizioni asteriscate erano quelle che i russi avevano trafugato durante il secondo conflitto mondiale».

Fra i vanti di Ruvo c’è quello di essere stata citata da Orazio. Cosa ci dice in proposito?

«Sui rapporti di Orazio con Ruvo vorrei dire tre cose. La prima è una semplice, ma necessaria precisazione. Per giungere a Ruvo Orazio non ha percorso la via Appia-Traiana, ma la via Minucia, quella fatta costruire dal console Marco Minucio Rufo intorno al 110 a.C. come variante/scorciatoia dauno-adriatica dell’Appia antica, elettivamente campano-lucana. Sicuramente la Minucia fu inglobata nell’Appia Traiana, ma ai tempi di Orazio l’imperatore Traiano non era ancora nato.

La seconda è che l’amabile racconto che Orazio fa nella satira V del suo viaggio da Roma a Brindisi e della sua sosta a Ruvo è il racconto di una delicata missione diplomatica tesa a ricomporre i rapporti fra Antonio e Ottaviano, missione alla quale egli partecipa, invitato da Mecenate, insieme a Virgilio, al console Lucio Cocceio Nerva (amico di entrambi i contendenti, e dunque pedina preziosa della missione), e al console Gaio Fronteio Capitone (amico di Antonio e Cleopatra): un gruppo istituzionalmente e culturalmente autorevole, che trova ospitalità notturna a Ruvo nel terz’ultimo giorno di viaggio. Dunque, Ruvo era attrezzata per accogliere e ospitare una missione diplomatica ai massimi livelli.

Infine, la nota forse più curiosa e suggestiva. Nel ricostruire la storia della prima edizione in assoluto di Orazio mi sono imbattuto in un ruvese, anzi nel più grande ruvese di tutti i tempi: nel nostro Domenico Cotugno. Indomito (come sappiamo) bibliofilo, egli visita la Biblioteca Imperiale di Vienna durante il suo viaggio come medico di Corte al seguito dei sovrani di Napoli nella capitale dell’Impero asburgico. In quella biblioteca egli rinviene un’edizione di Orazio stampata a Napoli da un tipografo fiammingo nel 1474, e crede che quella sia la prima edizione in assoluto di Orazio, e che quindi la fortuna editoriale del Poeta di Venosa sia iniziata proprio nella sua Napoli. Orgoglioso, ne dà subito notizia ai collezionisti di tutta Europa, uno dei quali conferma la notizia sulla base di un altro esemplare di quell’edizione custodito a Napoli nella Biblioteca del duca Serra Cassano. La notizia giunge alle orecchie di un morboso collezionista di prime edizioni dei classici latini: lord Charles Spencer, antenato della povera lady Diana. Travolto dall’idea di possedere la prima edizione di Orazio, lord Spencer si fionda dalla sua Manchester a Napoli e compra in blocco, per 30.000 ducati, l’intera biblioteca del duca Serra Cassano (frattanto caduto in disgrazia per aver simpatizzato per la Rivoluzione napoletana del 1799), pur di accarezzare le prime pagine di Orazio uscite da un torchio tipografico. Cotugno aveva però preso una cantonata. La prima edizione di Orazio non era quella, ma un’edizione veneziana di tre anni precedente: purtroppo per lord Spencer, purtroppo per la cultura napoletana, che perse una preziosa biblioteca che oggi si può consultare solo nella Ryland Library di Manchester».

Quando il lavoro era ancora inedito ha ricevuto un contributo economico del Premio di Filologia negli Stati Uniti. Infine, è stato pubblicato da Librairie Droz di Ginevra. Come è accolto in Italia?

«È stata una collega dell’Università di Cambridge, che conosceva il mio lavoro in fieri, a suggerirmi di partecipare a un concorso che la Fondazione ‘Weiss Brown’ e la Newberry Library di Chicago bandiscono annualmente per premiare la migliore opera al mondo che tratti delle culture letterarie, artistiche, teatrali, musicali dell’Europa moderna. Come da regolamento, l’opera, ancora inedita, è stata sottoposta al giudizio di dodici reader, specialisti di Orazio, di Università europee, americane, australiane, che l’hanno giudicata meritevole del premio. In realtà il premio, di diecimila dollari, è finito a partita di giro nelle casse dell’editore svizzero con l’impegno ad abbassare il prezzo del libro per favorirne la divulgazione. Questo è il fine che perseguono col premio la Fondazione e la Biblioteca americane. Ma il vero premio è stato per me quello di vedere pubblicata la mia opera di oltre 1500 pagine da un editore di dimensione mondiale tutta in Italiano: una rivincita della nostra lingua nazionale contro l’invadenza, anche nei saperi umanistici di ascendenza neolatina, dell’Inglese. L’opera è stata ampiamente recensita in numerose riviste italiane e straniere, e presentata in numerose Università europee, fra le quali la Sorbona di Parigi, la Complutense di Madrid, la Jagellone di Cracovia, l’antica Università di Salamanca. Le Biblioteche Nazionali di Madrid e di Cracovia hanno anche allestito mostre di edizioni antiche di Orazio in occasione delle mie presentazioni. Sempre a Madrid ho di recente illustrato il mio metodo di lavoro all’équipe di un progetto interuniversitario europeo teso a ricostruire la fortuna editoriale dei classici latini nell’editoria spagnola del Cinquecento. In Italia l’opera è stata presentata nell’Ateneo Veneto di Venezia, nelle Università di Firenze, Napoli, Salerno; nelle Biblioteche Nazionali di Roma e Palermo, oltre che naturalmente nell’Università di Bari e nel Liceo Classico “Quinto Orazio Flacco” di Venosa. Alla vigilia di due presentazioni in Ungheria il Covid ha fermato tutto».

La sua opera sarà presentata a Ruvo di Puglia?

«A Ruvo l’opera è stata già oggetto di una lectio magistralis che ho tenuto su invito della presidente dei Lions cittadini, l’avvocato Tecla Sivo, e della indimenticata presidente dell’Aede, la professoressa Pia Olivieri. Ma sarebbe per me un vero piacere poterne parlare anche ai giovani, nella speranza di riaccendere in loro il culto dell’antico, della storia, dei classici visti non nella loro aurea fissità, ma appunto come classici, come patrimonio culturale in rapporto dialettico e dinamico con le mutevoli generazioni dei lettori. Tutto questo raccontando la storia di quello straordinario oggetto, insieme concreto e astratto, che è il libro: specialmente in una città, Ruvo, che vanta un “Museo del Libro”».

sabato 4 Febbraio 2023

(modifica il 5 Febbraio 2023, 19:52)

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