Il saggio

Il professor Antonio Iurilli: «Domenico Cotugno e l’anno che verrà»

Ritratto di Domenico Cotugno © Antonio Iurilli
«Dal più grande ruvese di tutti i tempi, alla fine dell’anno cotugnano, una lezione di vita e un auspicio per il nuovo anno ai giovani del nostro tempo»
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L'orazione
L'orazione "De animorum" di Domenico Cotugno © Antonio Iurilli (cliccare sull'immagine per visualizzarla nell'interezza)

Sta volgendo al termine il 2022, un anno importante per i ruvesi perché ha coinciso con il bicentenario della morte di Domenico Cotugno, l’illustre medico ruvese.

In suo onore è stato predisposto un ricco programma di eventi dal Comitato Nazionale per le celebrazioni del Bicentenario, costituito dal dottor Santi Zizzo, che ne è presidente, che ha lavorato in stretta sinergia con un Comitato Scientifico costituito da studiosi di Cotugno tra cui il prof. Antonio Iurilli, ordinario di Letteratura Italiana nell’Università di Palermo e
autore del volume “Domenico Cotugno, Opere”, Manduria-Roma, Lacaita editore, 1986. E proprio il professor Iurilli offre ai lettori di Ruvolive, nel saggio “Domenico Cotugno e l’anno che verrà” alcune riflessioni su un testo poco noto del Medico ruvese «che, per contenuto, si presta a essere un augurio e un monito per il nuovo anno indirizzato ai giovani».

«Il 3 novembre del 1778 – scrive l’Autore – Domenico Cotugno, quarantaduenne rettore della Regia Università di Napoli, inaugurava al cospetto dei giovani studenti dei corsi di Medicina il nuovo anno accademico con un’orazione in Latino cui dava questo titolo: De animorum ad optimam disciplinam praeparatione (Come educare gli animi alla migliore regola di vita).

L’orazione è uno dei testi più complessi e suggestivi dello scienziato ruvese. È il sedimento del suo vissuto di scienziato, di medico, di maestro: una prova luminosa di quanto intrecciate fossero nella sua cultura Medicina e Filosofia, sapere scientifico e sapere umanistico, etica civile e deontologia professionale; un documento alto del suo magistero e del suo carisma nel sistema universitario del Regno, espressamente dedicato ai futuri medici; un messaggio che suona oggi quanto mai attuale non solo per le nuove generazioni di aspiranti alle discipline sanitarie, ma per tutti i giovani impegnati a fondare il loro futuro su solide basi etiche e culturali.

Il discorso di Cotugno è un monumento alla meditazione: a un esercizio della mente e del cuore sul quale si fonda la ricerca della verità. È il messaggio che Cotugno consegna ai giovani allievi della Scuola di Medicina per preservarli dal rischio dell’effimero, del fragile, dell’illusorio, del superficiale rapporto con la conoscenza e con la storia.

Per questo ho voluto che alla fine di questo “suo” anno, anno nel quale il Comitato Nazionale e il Liceo Tedone gli hanno dedicato una giornata di studi e un film di alto profilo, le riflessioni del più grande Ruvese di tutti i tempi sulla formazione dei giovani risuonassero, alla vigilia del nuovo anno, come viatico morale e intellettuale per i giovani del nostro tempo.

Ho voluto che dalle sue pagine e dalla sua terra natale (da quella Ruvo che già ai suoi tempi era giudicata “benemerita delle Lettere” per avergli dato i natali, e che geneticamente rifugge dall’effimero) partisse per i giovani un monito a riappropriarsi di un esercizio mentale che la deontologia del nostro tempo ha emarginato: a riappropriarsi della meditazione, che vuol dire difendere la mente dal luccichio illusorio e superficiale della vita-spettacolo, dal vuoto assordante dei media, dal frastuono devastante dei social, dal rumore spacciato per musica, dagli scaltri inganni degli idoli di una tecnologia senza scopo che, al servizio di un mercato spietato e immorale, tiene in ostaggio il loro diritto alla vera conoscenza.

Ho immaginato che l’esortazione alla meditazione di un grande scienziato, emerso con le sue sole forze da una provincia povera, possa creare nei giovani del nostro tempo una resilienza critica a quel perfido sistema di comunicazione virtuale che li irretisce in uno scambio fittizio, incapace di vincere la loro solitudine mentale e fisica, e che costituisce un’ingannevole via di fuga dalla complessità di questo tempo, una complessità che va invece affrontata forti di quelle risorse intellettuali e civili che Cotugno fa derivare proprio dalla meditazione alla quale la “pubblica educazione”, piuttosto che incentivare l’effimero, deve dare un contributo decisivo.

C’è sicuramente nell’orazione pronunciata da Cotugno l’eco di un testo capitale della cultura illuministica europea, un testo maturato nel clima fervido del riformismo illuminato napoletano, proiettato verso una nuova coscienza e una funzione democratica del sapere, pronto a collaborare col Potere per fare migliore la società. È il Discorso sopra il vero fine delle Lettere e delle Scienze di Antonio Genovesi, un gigante del pensiero meridionale, non a caso maestro e amico di Cotugno. Ma c’è anche nella sua appassionata esortazione a meditare rivolta ai giovani tutta la sua indole di figlio di contadini ruvesi fattosi da solo, severo, perfino duro, con sé stesso, essenziale, nemico dell’effimero. C’è il giovane medico che, come ricorda Camilleri, si manteneva a fichi secchi e sveniva per la fame.

Nel tracciare l’itinerario ideale dell’uomo verso la sapienza, Cotugno attribuisce in sintonia col Genovesi, un ruolo fondamentale alle Lettere, intese come “deposito e pubblico erario della virtù”, come scrigno delle millenarie conoscenze umane, senza distinguere, come avrebbe poi fatto la civiltà industriale, Lettere e Scienze, anzi integrandole in un complessivo processo di affrancamento dell’uomo dalla barbarie e in una progressiva conquista della civiltà attraverso la ragione.

Ma tutta l’orazione orbita intorno a un concetto-chiave: la necessità della meditazione nel rapporto dei giovani con la conoscenza.

Sulle orma di Vico, Cotugno distingue tre stadi di maturazione delle facoltà intellettive umane: l’età dell’astrazione, l’età della riflessione, l’età dell’ordine. Fra essi stabilisce un’interna gerarchia in funzione del possesso della verità, che è il fine ultimo dell’intelletto umano. Ad un momento di dominio incontrastato della “fantasia” nell’età dell’astrazione nel quale il sensibile prevale e condiziona l’intelligibile, segue il momento della “riflessione”, cui segue quello della “ragione”, che “ha conosciuto con suo pericolo il valore delle cose della vita e finalmente si richiama tutta a sé stessa”. Sono idee che emanano dal suo essere profondamente contagiato dall’entusiasmo dell’Illuminismo per la ragione, e dalla certezza che quell’entusiasmo avrebbe creato un nuovo, più equilibrato ordine nella società civile, una nuova idea di “progresso”.

Suggestive e al passo con le più avanzate teorie neurofisiologiche del suo tempo sono le corrispondenze fisiologiche che Cotugno stabilisce fra gli stadi della vita umana e l’evolversi della conoscenza. Strette sono infatti le correlazioni che egli stabilisce da una parte fra età dell’astrazione, ovvero della “fantasia”, ed esuberanza del circolo sanguigno intracerebrale; dall’altra fra età della riflessione ed eccitazione delle “fibre del cervello”: una eccitazione che viene indotta proprio dalla meditazione, la quale è in grado di attivare la luce prodotta dal fosforo presente nel cervello in modo che essa “illustri le immagini delle cose che l’animo desidera osservare”. Meditare è dunque un bisogno fisiologico dell’intelletto.

Quando Cotugno ammoniva i giovani a fare della meditazione il centro della loro formazione, forse li voleva come già nel Medioevo Bernardo di Chartres voleva gli intellettuali del suo tempo: “nani sulle spalle di giganti”. Una fascinosa metafora del privilegio dei moderni/nani di poter stare sulle spalle degli antichi/giganti, e quindi di poter guardare più lontano, a condizione di volerne assimilare con la meditazione, ovvero con l’acquisizione profonda della conoscenza tutto il loro patrimonio morale e intellettuale.

Eccole, allora, quelle pagine del Cotugno, riassunte e tradotte dal Latino:

Come educare gli animi alla migliore regola di vita

La verità è circondata da ostacoli, che l’animo vince con l’attitudine a meditare.

La meditazione accresce le forze dell’animo e perfeziona il cervello.

Questi processi non si attivano se non vengono coadiuvati dalla pubblica educazione.

Domenico Cotugno

Chi aspira alla sapienza e deve predisporre l’animo a questo importante obiettivo, deve trarre energia dalla meditazione. Io non riesco a sopportare quegli uomini che, ritenendo sufficiente all’azione l’impegno della mente, rifuggono dalla fatica di meditare come da un tormento della vita. Sicuramente il meditare apporta molestia e tedio all’animo, ma l’aspirazione alla virtù merita queste fatiche. La virtù si acquista solo con un grande sforzo. I nomi di “uomo” e di “virtù” sono reciproci.

E invece la dappocaggine trasforma quella corrispondenza in “uomo” e in “vizio”. La meditazione induce molestia alle fibre del cervello, particolarmente sensibili alle immagini che la meditazione produce. Queste molestie sono tuttavia compensate da un piacere molteplice e vario, soprattutto da quel piacere che le immagini prodotte dal moto della meditazione apportano. Quelle immagini si illuminano nel cervello proprio con l’atto del meditare e trovano nella capacità del cervello di produrre fosforo la possibilità di essere illuminate attraverso la meditazione. Sono quelle le immagini che l’animo desidera osservare. È insomma la meditazione a indurre le fibre del cervello a produrre quella luce che illumina le cose che l’animo tesaurizza.

L’uso della ragione dipende del tutto dall’attitudine del cervello, che va coltivato con l’esercizio e con l’apporto dell’animo. La natura ci ha dotati di grandi capacità all’azione. Ma è l’animo che deve stimolare e controllare tutte le azioni. Diversamente quella capacità non sortirà prodotto alcuno. Il cervello potrà al meglio dispiegare le sue facoltà, quanto più esso obbedirà agli stimoli dell’animo.

La meditazione perfeziona il cervello. Ma se non lo avrai predisposto a questo esercizio quando è tenero, invano ti sforzerai di piegarlo ai bisogni dell’animo quando si è indurito.

Vedo che la natura umana è giunta a un tale stato di degrado, che il corpo, nato per obbedire all’anima, la contrasta e la tiene in schiavitù. La virtù è un dono di Dio, ma è l’educazione che ci guida verso il giusto. L’educazione non è solo quella che corregge la natura, è quella che plasma l’uomo, che lo rende utile a sé stesso e alla Repubblica. Niente è più grande, più degno di lode nella vita sociale, che l’educazione dei giovani. Perpetui saranno i primi modelli ricevuti. L’educazione civile forma i costumi; l’educazione letteraria produrrà la dottrina. Dalla loro armonia dipende la salute del mondo.

Le nazioni fiorirono quando fiorirono gli studi e costituirono la forma più eccellente della vita civile. Quando invece le lettere non hanno più goduto della pubblica emulazione, e sono state confinate nelle scuole; quando hanno cominciato ad essere disprezzate e a nascondersi come fuggitive, non hanno più prodotto il piacere di coltivarle. L’onore, il pubblico plauso alimenta le arti. L’ingegno ha bisogno di emergere, e si alimenta con la speranza della lode. Bisogna onorare e premiare la virtù, se vuoi che una Repubblica fiorisca. L’arte è radicata nell’economia della vita civile; è nell’animo stesso degli uomini e li eccita alla virtù. Questo è, infatti, il primo obiettivo di una società ben organizzata: stimolare la naturale inclinazione degli uomini al bene comune, senza del quale non potrà mai esserci una privata tranquillità.

Se entrerete nel sacrario della sapienza, io vi prometto, o giovani, che accrescerete la vostra gloria e quella della patria. Se abituandovi alla meditazione sarete fedeli alla verità; se imiterete i grandi esempi di virtù; se impegnerete la vostra vita a coltivare la sapienza, tutto questo si tradurrà nella vostra felicità.

Ricordatevi che siete Italiani, stirpe di sapienti. Elevate i vostri generosi animi alla loro origine. Un nuovo ordine sta nascendo per noi. Fruite dei vantaggi che la virtù vi assicura. E se volete essere lodati, sarà per voi grande motivo di lode aver conservato lo splendore delle lettere e averlo accresciuto.

Non prestate orecchio ai ciarlieri nemici della virtù, i quali hanno inventato la favola della fortuna che domina le cose umane. Sono queste finzioni di poeti. La fortuna non è né ricchezza né potere. È grande solo quando dà forza all’animo. L’appellarsi alla fortuna è prova di un ingegno misero, che copre di nomi onesti la disonestà dell’animo.

Questo vuol dire essere sapiente: distinguersi con l’ingegno, ma ancor più coi costumi. Se questo accade, io sfido tutta la fortuna a nuocere al sapiente. La fortuna domina dove non c’è sapienza. Sia questo un muro di bronzo: sapere cose utili, seguire cose oneste. Giacché la sapienza genera l’utile, e l’utile non sia mai disgiunto dall’onesto».

venerdì 30 Dicembre 2022

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