La recensione e il ricordo

Pino Minafra & la Banda, Antonio Iurilli: «Inossidabile mito culturale lungo 26 anni»

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Dal concerto di Pino Minafra & la Banda, la "Marcia Trionfale dell'Aida"
Il professor Iurilli recensisce il concerto che Pino Minafra e la "sua" Banda hanno tenuto al Teatro Mercadante, ad Altamura, domenica scorsa e ricorda la prima esperienza in Germania, a Donaueschingen
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Roberto Ottaviano, le Faraualla e Livio Minafra © Antonio Iurilli
Roberto Ottaviano, le Faraualla e Livio Minafra © Antonio Iurilli

La scorsa domenica, al Teatro “Saverio Mercadante” ad Altamura si è tenuto il concerto “Pino Minafra & la Banda – fra tradizione e innovazione”, nell’ambito della rassegna “Musica Teatro Danza in dieci variazioni”, affidata alla direzione artistica della pianista Fiorella Sassanelli.

Tra gli spettatori anche il professor Antonio Iurilli che condivide con i nostri lettori non solo la recensione del concerto ma anche un affettuoso ricordo legato alla prima esperienza della  Banda di Ruvo in Germania, nel 1996.

«Alle ore 20 del 18 ottobre 1996 – scrive Iurilli – il classico colpo di grancassa chiamò il maestro Michele Di Puppo a dirigere la Banda di Ruvo in una performance destinata a fissarsi negli annali della cultura musicale del Mezzogiorno d’Italia. Pino Minafra aveva voluto me e mia moglie testimonial di una sfida: portare il suono popolare della banda nelle orecchie raffinate dei tedeschi; per giunta in una città musicalmente “predestinata”: Donaueschingen, che alla lettera significa “città in cui nasce il Danubio”, il fiume più musicale del mondo, che emette i suoi primi scrosci negli onirici paesaggi della Foresta Nera.

Il dubbio che impressivamente gli esternai nel momento in cui mi invitava (“Ma sei sicuro di voler portare vasi a Samo?”) c’era tutto. A quel colpo di grancassa i mille e passa tedeschi compostamente allineati in una capiente palestra reagirono, infatti, con una corale, sommessa, ma non per questo meno eloquente, risata. Un brusco rumore che annuncia l’inizio di un concerto era nel migliore dei casi una boutade per la cultura musicale tedesca. Io e Costantino Foschini, inviato da Rai 2 per un servizio sull’evento che sarebbe passato sulla rete nazionale, incrociammo sguardi perplessi, se non preoccupati.

Come sia finita quell’avventurosa, audace “prima” che covava tutta la spericolata cultura musicale di Pino, lo ricordano non solo le immagini, che religiosamente conservo, del pubblico tedesco in delirio sulle note del Nessun dorma, del Largo al Factotum, di Lucean le stelle, delle colonne sonore felliniane di Nino Rota; sulle note di una banda che, deposta la collaudata mise del melodramma italiano, scortava docile le deliranti armonie dell’olandese Willem Breuker, i virtuosistici assoli della tuba di Michel Godard, le sognanti cantilene popolari di Lucilla Galeazzi. Lo ricordano soprattutto i due cd prodotti da Enja, una delle più prestigiose case discografiche tedesche, oggi preziosi cimeli di modernariato musicale, autentiche pietre miliari della fortuna di una cultura musicale tutta meridionale, storicamente ben connotata, eppure capace di reinventarsi e di innervare del suo suono identitario imprevedibili repertori governati dalla nouvelle vague musicale del nostro tempo. Lo ricordano infine le preziose esibizioni di quella banda nei templi della musica di tutta Europa lungo questi ventisei anni.

Ed esattamente ventisei anni dopo quel primum in terra germanica, quella banda, della quale il tempo inesorabile ha rinnovato solo in parte l’organico, ma non ne ha scalfito (anzi, accresciuto) la qualità, si è esibita domenica scorsa nel Teatro Mercadante di Altamura: una sorta di ritorno topografico alle radici etniche e antropologiche di quel suono, concepito ancora una volta con lucida intuizione, culturale e manageriale insieme, da Pino Minafra, e condiviso da Fiorella Sassanelli, direttrice artistica del Teatro, un ritorno arricchito dallo straordinario apporto, oggi più che mai dolorosamente attuale, della fisarmonicista ucraina Eugenia Cherkazova.

Altamura è infatti città-simbolo dell’identità antropologica della Terra di Bari, nata dalle viscere di quella Murgia rude e fragile, tutta argilla e calcare, irradiata dai chiaroscuri abbacinanti del sole meridiano. Città multietnica, come la volle Federico II di Svevia che vi insediò greci, latini, ebrei, saraceni; ma tenacemente feudale e renitente a ogni tentativo di accentramento assolutistico, eppure pronta a sentire i venti delle rivolte antifeudali fino a farsi protagonista pugliese della Rivoluzione napoletana del 1799, e a guidare la crescita laica delle istituzioni scolastiche pugliesi con la prima Università libera del Mezzogiorno, e ad ospitare la Corte d’Appello territorialmente più estesa delle Puglie.

Il suono della banda di Ruvo si è dunque irradiato ventisei anni dopo da una terra limitrofa a quella che le ha dato origine e, quasi in segno di rivincita, in un Teatro, ovvero nel luogo di svago musicale per eccellenza delle aristocrazie liberal-borghesi, ingentilito dai suoni degli archi e dalle voci dei cantanti, laddove la Banda con le rudi, spesso approssimative, sonorità dei suoi fiati e delle percussioni amplificate dall’acustica naïf della cassa armonica, regalava alle plebi, nelle stesse piazze in cui i contadini vendevano per sopravvivere le loro braccia, sanguigni momenti di emozioni e di passioni.

E lo ha fatto mettendo in campo un repertorio ancor più fortemente intriso di valori identitari: naturale riflesso, credo, dell’impegno che Pino Minafra sta profondendo da qualche anno perché la Regione Puglia tuteli, come un’isola alloglotta da proteggere, il patrimonio musicale delle bande da giro, memore e riconoscente di quel che esse hanno dato, a partire dall’Ottocento, alla cultura popolare, e che potrebbero ancora dare nel presente facendo propri nuovi linguaggi musicali da opporre, proprio in quelle feste patronali che ne hanno per due secoli sancito l’apoteosi, alle performance deculturizzate di cantanti e di gruppi musicali commercialmente e onerosamente à la page.

Quel repertorio ha quindi coinvolto il pubblico del Mercadante nelle avvincenti, intramontabili sonorità egizie della Marcia Trionfale dell’Aida. Ma, a certificare l’intatta suggestione di un suono che non merita di tramontare anche perché capace di interpretare in chiave moderna l’ancestrale musicalità delle terre che si affacciano sulle rive millenarie di quel Mediterraneo che è stato grembo liquido di grandi civiltà, Pino e Livio Minafra lo hanno traghettato verso personali composizioni capaci al contempo di esaltare le cupe, luminose, lente, frenetiche sonorità mediterranee dei fiati e delle percussioni, e di accompagnare le voci fascinosamente primigenie delle Faraualla: un nome icasticamente identitario dell’orogenesi murgiana. Voci che cantano in un fantasioso medio-latino, vistosamente influenzate dall’archetipo autorevole dei Carmina Burana, ma riletto, quell’archetipo, secondo cadenze sonore che appartengono alla primitiva drammaturgia greco-latina, fortemente presente nelle culture meridionali, e ancor più nella cultura pugliese, che nei secoli si è a lungo divisa fra la Grecìa salentina e quella latinità che, nella Puglia peuceta e dauna, le imposero i Benedettini e i Normanni, entrambi uniti nella volontà di sradicare da quelle terre il dominio bizantino».

martedì 18 Ottobre 2022

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