Il centenario

“Biagia Marniti: l’ospite attesa cento anni dopo”, il ricordo del professor Antonio Iurilli

La Redazione
​Cento anni fa nasceva, a Ruvo di Puglia, Biagia Masulli che diventerà Biagia Marniti, poetessa, giornalista e bibliotecaria. Il ricordo del professor Iurilli che l'ha conosciuta
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Ricorrono, oggi, cento anni dalla nascita della poetessa, giornalista e bibliotecaria ruvese Biagia Marniti, al secolo Biagia Masulli.

Il professor Antonio Iurilli, per l'occasione, dedica un saggio per onorare l'illustre intellettuale.

«Ricorre oggi il centenario della nascita di una illustre ruvestina: Biagia Masulli, in arte Marniti – scrive il Professore.

"Sono nata –scrive di sé– in un piccolo paese di provincia alle idi di marzo del 1921. Cesare fu ucciso proprio alle idi di marzo. Ho trascorso i primi anni nel ‘borgo natio’, caro con la sua cattedrale romanica, con le piccole viuzze, con la sua piazza, la sua villa e la sua scuola".

A parte la lugubre coincidenza col cesaricidio, Biagia Marniti nasceva a Ruvo in coincidenza con eventi importanti della storia nazionale. Nasceva alla vigilia della Marcia su Roma e nello stesso anno in cui veniva assassinato Giuseppe Di Vagno e fondato il Partito Comunista Italiano. A Ruvo visse solo i primi sette anni, a Bari i dieci successivi, per poi spiccare, diciottenne, il volo per Roma. Ma gli anni non contano nel gioco alogico della memoria affettiva. Me ne accorsi quando, lavorando nel 1984 con Michele Dell’Aquila al Parnaso di Puglia del Novecento, lessi di lei questo sonoro attacco giambico, inconsueto nella scrittura poetica di una donna: "Non ho paura di lottare/non ho paura di morire./Nata da terra vulcanica/di fiumi azzurri di grotte aperte/ricca d’ulivi e vento/nulla temo". E scorgevo qualche pagina più in là altri versi "meridionali" vistosamente dissonanti dai flebili stereotipi del meridionalismo postbellico.

Era il 1984. Tranne che ad alcuni suoi parenti, Biagia a Ruvo era sconosciuta. Era sconosciuta a quella Ruvo che invece mi era sembrata ancora palpitare in quei suoi versi permeati dal demone di una "meridionalità" ossimoricamente titanica e parnassiana, irradiati da una solarità calcarea normanno-federiciana, e accesi dai colori della tavolozza solare e contadina di un altro grande ruvese, Domenico Cantatore. Tutto questo mentre l’Europa poetica in quegli anni parlava il linguaggio scabro e sublimato dell’ermetismo, e lo parlava il suo adorato nume, Giuseppe Ungaretti. Insomma, quei versi mi sembrarono una trasgressione al trend letterario di quegli anni, una trasgressione sostenuta da un’appassionata memoria identitaria, così come dall’antica grandezza della sua terra natale Biagia aveva attinto la passione per l’archeologia, e le scene fittili dei crateri magnogreci ruvestini le avevano dettato i raffinati stilemi della poesia ellenistico-alessandrina con i quali aveva plasmato la seducente levità dei suoi primi versi, che furono versi d’amore: “Ad Amore ho sorriso / fanciulla che il sandalo d’oro / scioglie per correre”.

Decisi allora di osare, mettendo nel conto il rischio di incontrare una disincantata intellettuale "cittadina", che a otto anni era stata trapiantata a Bari, e a diciassette a Roma. Immaginai insomma di impattare in una femme savante snobisticamente lontana persino dai ricordi del suo "paesello" natale. Alla mia lettera di invito timidamente ossequiosa Biagia rispose con la modestia e la generosità dei grandi. Il suo ritorno a Ruvo si compì nel marzo del 1985, in una serata densa soprattutto di stupore per questa tanto illustre quanto sconosciuta ruvestina.

Ancor più intenso fu il secondo incontro con la sua città natale, che propiziai nel 1992. Più intenso perché si svolse nell’atrio di Palazzo Caputi, di fronte alla sua casa natale, e lei commosse il pubblico leggendo i suoi versi più belli che risuonarono carichi di memorie sulla loggia di vico Loriano, sotto l’arco Caputi e nei vicoli misteriosi della sua infanzia. La presentò Raffaele Nigro, fresco di Premio Campiello, e la Rai confezionò un memorabile servizio della serata nel quale, sotto la lettura coinvolgente di Biagia, scorrevano, in un’affascinante sinestesia culturale tutta ruvestina, le immagini dei dipinti di Cantatore che il Palazzo da qualche mese ospitava. Sembrava un avvincente dialogo verbo-figurativo fra due grandi ruvestini.

Fu quello il ritorno, per quanto occasionale, di una ruvestina che aveva compiuto un viaggio, per i tempi audace, da un balcone adriatico della Murgia barese verso gli impervi e insidiosi crinali del potere culturale della Capitale: un viaggio compiuto fra Fascismo, guerra, dopoguerra, boom economico, avendo per viatico solo le naturali fierezza e ritrosia di una ruvese che additava con l’incruento, delicato strumento della poesia la strada di un’emancipazione femminile "gentile" a una società che aspirava ad essere più giusta, fatta di donne e di uomini liberi. Un identikit di donna, protagonista consapevole di un’anabasi intellettuale dalla terra azzurra e solare di Puglia alle plaghe tentacolari della Città eterna, che Biagia, in quella memorabile serata, riuscì a comunicare con affabile immediatezza. Per questo i tanti concittadini presenti si strinsero intorno a lei, sentendola, nonostante gli anni e la distanza, come vestale dell’identità cittadina, personaggio di alto profilo, ma anche antica amica discreta e affettuosa.

Da quei ritorni ho goduto della sua amicizia fino alla sua scomparsa, nel 2006. Un’amicizia vissuta in quella Roma che l’aveva accolta fra le tronfie parate del Regime razzista e bellicista, mentre incombevano i cupi presagi della guerra. In quella Roma che per lei diciottenne era stato un approdo di libertà e di affrancamento dal grigiore della provincia pugliese, immune dal rigetto radicale dello scomposto urbanesimo della società di massa, anzi vissuta col sereno ottimismo di allargare l’orizzonte delle origini alla comprensione di una diversa realtà ricca di stimoli. In una Roma che Biagia, in un verso vistosamente foscoliano, cantava come “bella all’esule che il ricordo carezza”, imprimendo in quel verso la solitudine dell’anima nel frenetico vitalismo della città moderna, e la nostalgia per una Puglia che si andava frattanto dileguando come memoria fra le brume dei ricordi adolescenziali.

Sono stati i miei giorni romani trascorsi in compagnia di Biagia fra i più ricchi di emozioni culturali. Giorni vissuti fra la Biblioteca Apostolica Vaticana e la sua bella dimora in via Cola di Rienzo: una wunderkammer della sua vita artistica e intellettuale fasciata di libri, di tele e di memorie materiali, a qualche centinaio di metri da San Pietro, di fronte a Franchi e a Castroni, celebri templi gastronomici del quartiere Prati. Vivevo quei giorni al mattino fra i manoscritti e gli incunaboli dei miei studi sul Rinascimento, e la sera fra le affascinanti incursioni che facevo in sua compagnia nel suo laboratorio poetico, praticando con lei quel dialogo che mi faceva amabilmente addentrare nelle dense stratificazioni culturali dei suoi versi, nella ricca e imprevedibile gamma delle sue fonti, nelle letture, nelle suggestioni, nelle sue consonanze e dissonanze dalle correnti letterarie del momento che animavano spesso i suoi umori, ma sedimentavano, modulate dal gusto e dalla sensibilità, nel suo immaginario poematico e lo connotavano come delicato equilibrio di varie ascendenze, visibili nelle tormentate, inappagate varianti autorali cui sottoponeva i suoi versi rigorosamente autografi: una vera delizia agli occhi del filologo che può immergersi nel processo creativo della scrittura; una delizia ormai démodé, insidiata dalla videoscrittura o dalla scrittura digitale, che non lasciano tracce variantistiche d’autore, negando il fascino del farsi faticoso del testo. Erano, quelle che ascoltavo, le nugae apparenti che i grandi poeti sanno rendere incancellabili lezioni di vita.

Mi affascinava poi sentirla ritessere, con amabile levità, le trame del suo vissuto letterario romano, a cominciare dalle ansie palingenetiche postbelliche da lei coltivate nella calda atmosfera eversiva del Babington e del Rampoldi di piazza di Spagna, due caffé luoghi di aggregazione degli intellettuali della Roma democratica e resistenziale, dove incontrava spesso Vincenzo Cardarelli, che la chiamò “principessa sveva”, e Giorgio Caproni, che aveva letto nella secca durezza di molti suoi versi “il timbro di certe remote canzoni sveve”.

Mi diceva della sua entusiastica adesione giovanile ai poeti della Quarta Generazione, convinti di essere cuscinetto attivo fra primo e secondo Novecento, e di poter concorrere con la poesia a traghettare l’Italietta fascista e confessionale verso la modernità postbellica, laica e progressista. Nei suoi racconti riviveva il suo giovanile coinvolgimento nelle avanguardie letterarie della Capitale impegnate nell’innovare lo stantìo dannunzianesimo e l’arte di Regime, sentendosi protagoniste di una missione civile e morale dei giovani poeti, desiderosi di dare vita al futuro, nell’aria cospiratrice dei cenacoli letterari e delle riviste clandestine delle avanguardie poetiche, e di ricostruire l’identità di un’Italia sfigurata dal ventennio e dalla guerra. Non a caso era nato in quel clima Meridione, il canto malinconico e titanico alla sua terra eternamente prostrata dall’ingiustizia, dalla quale l’intera nazione ricostruita aveva il dovere di liberarla, non di continuare a sfruttarla come i primi segni del capitalismo "a forbice" stavano mostrando e quelli del capitalismo di Stato ipocritamente coprendo.

Nell’atmosfera eversiva del Babington e del Rampoldi, due caffé in piazza di Spagna animati dall’intellighenzia romana democratica e resistenziale, Biagia condivise le ansie palingenetiche postbelliche di una generazione di scrittori intenti a a demolire lo stantìo dannunzianesimo e l’arte di Regime, e a ricostruire l’identità non solo letteraria di un’Italia sfigurata dal ventennio e dalla guerra.

Mi raccontava poi le liturgie, le umane fragilità, i piccanti retroscena dei salotti letterari capitolini, soffermandosi su quel che avveniva in casa Bellonci a opera degli «Amici della Domenica». O la varia umanità che animava la casa-studio dello scultore Giuseppe Mazzullo, dove “Ungaretti allungava la sua inconfondibile risata, Zavattini sosteneva l’idea di un foglio letterario e, fra i tanti, s’incontravano D’Arrigo, Bodini, Guttuso, mentre in un’atmosfera bohémienne la chitarra di Ivan Mosca e la fisarmonica del pittore Casotti rallegravano quegl’incontri, durante i quali il vino e le noccioline erano l’unica cena possibile; sicché l’ambiente finiva per assumere l’aspetto di un vivente quadro Fauve”.

In quegli stessi anni Biagia incontrò alla "Sapienza" Giuseppe Ungaretti. A lui si era presentata come «la piccola errante del sud», e lui aveva, da poeta, scolpito quella sua fiera timidezza nell’epiteto "donna nera", incoraggiandola a perseverare in quel "canto di rara intensità", lui maestro dell’Ermetismo, ovvero della corrente poetica meno incline al canto. E Ungaretti aveva tradotto quell’apprezzamento in una intensa prefazione grazie alla quale Biagia entrò nel 1957 con Più forte è la vita nella collana dei Poeti dello Specchio, Olimpo della poesia italiana del Novecento, contando anche sulla stima di una pasionaria della cultura letteraria: su quell’Alba de Céspedes che con lo pseudonimo epico-cavalleresco di "Clorinda" aveva irraggiato nell’etere, dalla mitica Radio Bari, i primi vagiti della rinascita libera e democratica della Nazione.

Non meno intensa fu l’amicizia che Biagia coltivò con Arnaldo Bocelli, lettore raffinato e implacabile della produzione letteraria del Novecento, capace con le sue taglienti recensioni di decidere la fortuna di uno scrittore. Nel suo sterminato archivio, del quale Biagia fu nominata erede testamentaria, giacevano le centoventi lezioni di letteratura italiana che Bocelli, alla fine degli anni Quaranta, confezionò per la Radio, portando per la prima volta, attraverso l’etere, le voci della grande letteratura nazionale nelle case di tanti italiani ancora analfabeti.

Ci accomunava poi il culto delle biblioteche. Da ispettrice centrale della Direzione Nazionale delle Biblioteche le piaceva sapere dei miei chiaroscurali rapporti di utente con quei giacimenti, spesso ispidi, della memoria scritta. Amava parlarmi del suo morboso amore per i libri, iniziato con la dura gavetta di bibliotecaria nell’Universitaria di Sassari. Ma quella forzosa insularità imposta dalla imprevedibile liturgia dell’impiego pubblico, scavalcando d’improvviso lo spazio/tempo dell’esperienza urbana, aveva nutrito il suo immaginario degli sconfinati paesaggi marini insulari, e le aveva fatto cercare in quell’isola punteggiata, come la Puglia meridiana, di città bianche stagliate sul fermo orizzonte, un continuum odeporico fra “il mare ondoso” e i “fiumi azzurri” della sua terra adriatica virgilianamente ‘umile’, e l’“azzurra onda” che si frange sulle sponde scoscese dell’isola tirrenica.

Mi parlava della Biblioteca Universitaria di Pisa, a ridosso di quel Lungarno che anche lei aveva sentito, come Leopardi, “spettacolo così ampio, così magnifico, così gaio, così ridente che innamora”, e che era stato fecondo terreno di coltura del quale si era nutrito l’ultimo atto di Più forte è la vita. E si inorgogliva nell’elencare le vetuste biblioteche romane, cariche di storia e di rarità bibliologiche, delle quali era stata custode: della Vallicelliana, dell’Alessandrina, della Corsiniana, e soprattutto dell’amatissima Angelica, la più antica biblioteca pubblica d’Europa, a un passo da piazza Navona. Molti dei suoi anni li aveva trascorsi proprio lì, sotto la cupola dell’immenso salone vanvitelliano fasciato di libri antichi, a custodire pregevoli fondi librari sul teatro, sui conflitti religiosi, sul Barocco, ma soprattutto a custodire il prezioso "Serbatoio d’Arcadia", ovvero lo sterminato archivio della più prestigiosa accademia letteraria d’Italia, che fra Seicento e Settecento segnò una svolta nella cultura letteraria nazionale.

Vivemmo insieme la serata finale di un Premio Strega nella magica atmosfera del Ninfeo di Villa Giulia. Con il tenue disincanto di chi rievoca un tempo che non suscita ormai emozioni, Biagia mi parlava dei premi letterari che aveva ricevuto: del ‘Bordighera’ nel 1955; del ‘Lerici’ nel 1956; del ‘Cima’ nel 1983. Tradì invece una certa emozione quando rievocò con non poca reticenza quel che le era stato riferito dietro le quinte del ‘Viareggio’ 1957, al quale aveva partecipato con Più forte è la vita fresca di stampa: che stava per farcela, ma Quasimodo, che poi vinse il premio, sentenziò: “I giovani possono aspettare”. E fu ascoltato.

Quell’ovattato ricordo fu comunque l’incipit di una ironica perlustrazione di quel brulichio di varia umanità che si agitava instancabile fra i tavoli del Ninfeo in cerca di consensi. Mi additò alcuni inossidabili boss delle lettere ingordi di inquadrature televisive e di calcolate strette di mano; i portaborse degli editori; i prezzolati claqueurs dei finalisti. A quell’infido, effimero mercato della parola scritta, soggiogato da tanta affabulante ‘letterateria’ postmoderna che fa vivere un autore l’éspace d’un matin, lei aveva sempre opposto, anche al prezzo di una immeritata marginalità editoriale, quell’autentico bisogno di canto che l’aveva identificata fin dagli esordi nel panorama letterario nazionale, e che l’aveva messa subito in sintonia col più grande poeta del Novecento italiano; quel bisogno di canto che aveva poi negli anni coltivato nella penombra epicurea del “vivi nascondendoti”, nel suo operoso laboratorio di scrittrice e di studiosa.

Per questo non si era mai riconosciuta in quella cultura laccata di mondanità, in quello spregiudicato mercato delle lettere, particella infinitesima del gigantesco mercato che oggi governa il mondo e le relazioni tra gli uomini. Ad essere altra, a coltivare una coscienza espressiva autonoma, ad opporre ai compromessi una tenace ritrosia e fierezza, a rendersi insomma più difficile la via del successo –lo diceva con consapevole paradosso– l’aveva aiutata proprio il genotipo identitario della sua esistenza: quella ‘pugliesità’ dura e fragile come la marna evocata nel suo icastico nom de plume.

Sono stati questi i caratteri da lei impressi nelle sue raccolte poetiche: nel Cerchio e la parola, nel Gomitolo di cera, nella Ballata del mare.

Forse per questo suo essersi voluta emarginare dal flusso epidermico dell’immagine e della ‘comunicazione’ mistificante del nostro tempo, lei stessa aveva intitolato una plaquette di sue poesie La donna senza volto, avvolgendo la sua identità letteraria sotto un misterioso velame renitente alle liturgie correnti del successo e del potere perché non la contaminassero, memore del monito di Umberto Saba ai poeti perché facessero “poesia onesta”. Forse questo è il suo più grande, più duraturo messaggio di una donna del sud dagli occhi fieri e diffidenti, che ha attraversato, testimoniandole con limpida coscienza critica, le inquietudini del Novecento, tutte ancora drammaticamente vive nell’ingannevole ‘progresso’ del terzo millennio. E forse per questo agli ultimi versi memorialmente evocativi della ‘sua’ Cattedrale, plastici come le immagini zoomorfe dei bestiarii medievali, fa da immediato contrappunto il vano sentimento di ricerca di un ‘non luogo’ in cui consumare quel che resta da vivere.

Di qui forse il suo bisogno di coltivare almeno in una dimensione utopica l’attesa del ritorno, elevando questa aspirazione a simbolo della speranza di una palingenesi dell’uomo riconciliato con se stesso e con la natura di cui è parte:

Forse un giorno tornerò alla mia collina

tra ulivi e mandorli cinerini nel sole d’estate,

ai braccianti agli artigiani

fra l’odore del basilico e garofani rossi.

Giorni di giovinezza lontana,

ignaro bene che più non possiedi

sei l’ospite attesa, ragazza ruvese.

È il messaggio di una “ragazza ruvese” che ce la fa sentire ancora, carica di fascino e di esemplarità, come “ospite attesa”, cento anni dopo».

 

 

lunedì 15 Marzo 2021

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