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Gabriele Del Grande, la sua storia vista con gli occhi di Pietro Pasculli

Elena Albanese
Il giovane attivista ruvese ha vissuto sulla propria pelle il dramma della detenzione nella Turchia di Erdogan. «L'isolamento è devastante», dice, «e per sopravvivere devi pensare a chi ce l'ha fatta»
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Gabriele Del Grande è un giornalista e regista toscano 35enne. Il suo documentario “Io sto con la sposa”, del 2014, ha raccontato la storia vera di come cinque profughi siriani e palestinesi siano riusciti a raggiungere la Svezia da Milano senza essere arrestati, inscenando un finto corteo nuziale.

Lo scorso 10 aprile Gabriele è stato fermato in Turchia al confine con la Siria, dove stava realizzando delle interviste per il suo ultimo libro “Un partigiano mi disse“. Da allora è detenuto in un Cie a Mugla, apparentemente senza essere accusato di alcun reato penale.

Nella sua vicenda si riconosce appieno Pietro Pasculli, giovane attivista ruvese, anch’egli ingiustamente detenuto dal regime di Erdogan la scorsa estate. «Nelle sue parole ho ritrovato la mia storia», dice riferendosi all’unica telefonata che Del Grande è riuscito a fare alla sua compagna lo scorso 18 aprile. «Lui si trovava a circa 400 chilometri a occidente rispetto a me, nella zona di Hatay, sede tra l’altro della mia seconda prigionia; mentre io ero più vicino al confine con l’Iraq», poiché – mi spiega – «attualmente dalla Turchia è impossibile entrare direttamente in Siria».

Le vicissitudini dei due sono simili anche dal punto di vista delle dinamiche. Entrambi posti in isolamento, entrambi impossibilitati a parlare con qualcuno che li possa aiutare. «L’isolamento è devastante, è la cosa peggiore di tutte», ricorda Pietro. «Sei sottoterra, nella tua cella da tre metri per cinque con un faro puntato sul letto. Ti fanno firmare un modulo internazionale secondo il quale hai diritto a un avvocato e a contattare la tua Ambasciata, ma se chiedi di poterlo fare ridono e vanno via. Allora pensi che sia tutto finito e anche pochi giorni diventano un tempo incalcolabile.

Non sai cosa succede fuori, se qualcuno si sta occupando di te e del tuo caso, e ti senti completamente solo. Allora l’unico modo che hai per sopravvivere a una tale condizione è pensare a chi ci è passato prima di te e ce l’ha fatta, come Dino Frisullo negli anni ’90, e non a chi non ne è uscito vivo, come Giulio Regeni».

Come nel caso di Pietro, per risolvere la situazione si sta muovendo la Farnesina, ma naturalmente non si conoscono tempi e modalità. «Io ero a posto con me stesso», dice oggi col senno di poi, cercando di spiegare l’angoscia di kafkiana memoria di chi è innocente, ma non sa come spiegarlo a coloro che dispongono in quel momento del suo destino. «Ho conosciuto l’avvocato che mi era stato assegnato d’ufficio il giorno stesso del processo, durante il quale mi aspettavo di vedere un rappresentante del Consolato di Smirne che mi prendesse e mi portasse via». Cosa che non è avvenuta, facendogli assaporare la libertà solo per qualche ora, per poi essere nuovamente rinchiuso in un Centro di identificazione ed espulsione per altri interminabili giorni. Accusato di terrorismo solo per aver documentato le attuali condizioni di chi oggi vive nella Turchia di Erdogan. Roberto Saviano dalle pagine di Repubblica considera questa modalità d’azione una precisa strategia del Goveno di Ankara contro una presunta delegittimazione del Paese, che alimenterebbe un clima di diffamazione. Una lettura che Pietro Pasculli condivide: «Il messaggio è chiaro. “Noi stiamo facendo il nostro Sultanato e nessuno (l’Europa in primis, ndr) deve interferire”».

L’unica cosa che fa ben sperare, secondo lui, è il fatto che Del Grande non sia detenuto in una prigione, ma in un centro di espulsione, che ne presuppone il rimpatrio. «Non so la “gravità” dei suoi appunti rispetto ai miei. Io però avevo cancellato tutto, mi era rimasto solo un diario, su cui però scrivevo più che altro sensazioni ed emozioni del viaggio». In ogni caso «mi sento legato a lui e a chiunque decida di partire». Ed è per questo che, insieme all’associazione Prolet, di cui fa parte, si è accodato alle manifestazioni di solidarietà che si stanno moltiplicando in tutta Italia, affiggendo uno striscione anche a Ruvo, nella centrale piazza Matteotti. “Il mondo è un luogo indifferente – si legge -, ma tu non sei solo. Dalla parte di Gabriele libero subito!”.

«Forse la situazione non era delle migliori per andare lì, questo lo sapevo anche io. Ma per me è stata una necessità, derivante da quello che definirei quasi un senso di colpa» nei confronti delle politiche internazionali che hanno portato alle attuali condizioni di oppressione e di ingiustizia di alcuni popoli.

«Quello che non vuoi quando esci è il giudizio della gente. Di chi pensa che, in fondo, te la sei andata a cercare. E’ brutto sentirsi “condannato” quando vorresti solo una pacca sulla spalla» per il pericolo scampato. Ecco, «noi vogliamo che lo Stato senta questa come una causa di tutti gli italiani.

E che Gabriele, quando tornerà a casa, senta tutta questa vicinanza e questo supporto e che, magari, lo spingano a ripartire».

sabato 22 Aprile 2017

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