Attualità

Gianni Bianco e Pinuccio Fazio, la forza del No(i) contro le mafie

Elena Albanese
Il primo descrive il coraggio degli imprenditori viestani di denunciare il racket; il secondo racconta del figlio Michele, vittima innocente della guerra fra clan, e della volontà di dire «Basta!»
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Comincia in maniera molto poetica il suo intervento nell’auditorium del liceo “Tedone” il giornalista del Tg3 Gianni Bianco. Lo fa mostrando il video del brano dello scorso Festival di Sanremo “La leggenda di Cristalda e Pizzomunno”. Poi azzarda un paragone tra le sirene del racconto e la mafia garganica, rendendo la giovane cantata da Gazzè una delle vittime della lupara bianca. «Ma qualcuno ha resistito a questa prepotenza – dice -, come Pizzomunno», impietrito ma anche saldo e radicato nel suo territorio. «Proprio come il primo imprenditore viestano che ha denunciato le estorsioni della malavita» consentendo, con una virtuosa reazione a catena, la nascita della prima associazione antiracket della città. «La sua è stata una resistenza di una bellezza scarna», proprio come quella della bianca scogliera, commenta il giornalista. Che poi sciorina una serie di dati agghiaccianti sui delitti che si sono consumati sul Gargano: circa 300 negli ultimi 30 anni; e solo nel 20% dei casi sono stati trovati i colpevoli. «Perché nessuno parla». Dentro e fuori i clan.

Ecco perché la marcia in ricordo delle vittime innocenti delle mafie – in programma proprio oggi – quest’anno si svolge a Foggia. Perché gli operatori turistici viestani non siano lasciati soli; perché altri capiscano che solo la legalità collettiva, solo il “Noi” auspicato da Bianco e dal sostituto procuratore della Repubblica Giuseppe Gatti nei loro libri può davvero fare la differenza. Può spaventare chi sembra non aver paura di nulla. Per spiegarlo, il giornalista chiama a raccolta nei suoi contributi filmati don Ciotti, il procuratore di Bari Giuseppe Volpe, ma anche una giovane wedding planner foggiana e il rapper napoletano Rocco Hunt.

Ma è probabilmente la testimonianza di Pinuccio Fazio quella che resterà negli occhi e nei cuori degli alunni presenti all’incontro, preparatorio alla XXIII Giornata della Memoria e dell’Impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie organizzata da Libera ogni 21 marzo, alla quale Ruvo partecipa oggi “portando il nome” di Antonio Lorusso, concittadino ucciso nel 1971 a Palermo insieme al magistrato Pietro Scaglione.

La voce di questo papà zittisce anche gli ultimi futili entusiasmi adolescenziali e la platea di studenti lo ascolta in religioso silenzio. A Pinuccio, ferroviere con la quinta elementare, il 12 luglio del 2001 hanno ucciso per errore il figlio Michele («era alto più di un metro e 90, era più alto di me»), 15 anni, durante un regolamento di conti tra clan rivali di Bari vecchia. Il ragazzo lavorava in un bar; il padre era in ferie ancora per pochi giorni e gli aveva regalato un telefonino pagato a rate, 10mila lire al mese, con il disappunto della moglie Lella, ché i soldi non erano poi così tanti in famiglia.

Poi, in un pomeriggio estivo, all’improvviso la quiete di questa famiglia perbene viene drammaticamente violentata da alcuni colpi di pistola «che mi rimbombano tuttora nelle orecchie». Prima lo spavento e il pensiero che la cosa non li riguardi, poi la sorella 13enne che dalla finestra vede il corpo del fratello in una pozza di sangue.

Pinuccio racconta l’iniziale volontà di scappare da quel quartiere, dalla città, perché «Michele è stato ammazzato anche dal muro dell’omertà». Ma poi lui e sua moglie si fanno coraggio, decidono di restare («Io abito ancora a Bari vecchia e non ho nessuna intenzione di andare via!») e di combatterlo, questo muro, guardandolo in faccia («Io metto le mie labbra e il mio volto per dire “Basta!”»). Riescono a far riaprire il caso precedentemente archiviato, trasformano il dolore in azione condivisa finché gli assassini non vengono arrestati. Contro la «logica della mafia, che è chiedere vendetta», loro hanno chiesto – e alla fine ottenuto – giustizia.

Ma non si sono fermati. «Abbiamo intitolato a Michele un’associazione, per riprenderci il nostro quartiere», sottrarlo alle grinfie della malavita e dare un’esistenza dignitosa a chi vuole rifarsi una vita. Aiutano gli ex detenuti impegnandoli in lavori socialmente utili. Che sono loro riconoscenti perché «grazie a Michele riusciamo a mangiare un pezzo di pane pulito, onesto».

mercoledì 21 Marzo 2018

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