La lettera aperta

Ugo Pellicani: «La pura memoria e i dolori subiti da noi familiari portano un’esperienza reale e inconfutabile»

Lapide in via Martiri delle Foibe
Ugo Pellicani, nipote di Vincenzo Pellicani, uno dei tre cittadini ruvesi infoibati, replica alla nota della sezione ruvese del Partito di Rifondazione Comunista, intitolata "Ruvo e le foibe, più di un ragionevole dubbio"
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Lo scorso 11 febbraio, in occasione del Giorno del Ricordo, il “Comitato 10 febbraio” organizzò, in collaborazione con l’Associazione Nazionale Bersaglieri di Ruvo di Puglia, una manifestazione commemorativa in onore di Mario Chiarulli, Donato Minafra e Vincenzo Pellicani, tre cittadini ruvesi infoibati a cui è dedicata la lapide in via Martiri delle Foibe.

Prima della marcia commemorativa, nella sede dell’Anb si svolse la conferenza pubblica intitolata “Quando il giorno del ricordo serve a far rispettare la storia”, curata dal professor Giuseppe Di Cuonzo Sansa, storico delle terre del Nord Est ed esule di prima generazione, a cui seguì la testimonianza del signor Ugo Pellicani, nipote di Vincenzo Pellicani.

Una testimonianza che il signor Pellicani affida a una lettera aperta, in risposta alla nota della sezione ruvese del Partito di Rifondazione Comunista “Ruvo e le foibe, più di un ragionevole dubbio”.

«Il 28 febbraio scorso – scrive Pellicani – è stato pubblicato un articolo che riporta una nota di riflessione della sezione ruvese del Partito di Rifondazione Comunista che, in parte, tocca direttamente il sottoscritto come nipote diretto di Vincenzo Pellicani, una delle tre vittime indicate.

Ho avuto modo di partecipare all’evento tenutosi l’11/2/23 a Ruvo di Puglia. Come noto, si è trattato di un momento commemorativo, che ha visto anche la presenza del Sindaco (Pasquale Chieco, ndr) in qualità di rappresentante delle istituzioni, organizzato dal Comitato 10 febbraio in collaborazione con l’Associazione Nazionale Bersaglieri di Ruvo di Puglia, ai quali invio la presente per conoscenza.

Con la mia presenza ho voluto portare un saluto della famiglia Pellicani e un sentito ringraziamento a tutti coloro che hanno contribuito a realizzare questa lapide di riconoscimento che si aggiunge alla medaglia conferita a Vincenzo Pellicani con decreto del Presidente della Repubblica il 6/3/2007 a Trento, in base alla legge 92 del 2004 nell’ambito del ”Giorno del Ricordo”.

Condivido e accolgo altresì, con favore, il pensiero editoriale di RuvoLive che dichiara sul proprio sito web: …”il principio cardine sul quale si fonda la nostra linea editoriale è quello della qualità dell’informazione“, ma ritengo doveroso evidenziarLe l’inesattezza e infondatezza di varie informazioni riportate nell’articolo/saggio pubblicato che, a mio avviso compromettono la finalità di migliorare la consapevolezza della comunità ruvese relativamente a questo argomento.

Parlare di “ragionevole dubbio” è corretto e condivisibile in tutti i contesti. È il beneficio del dubbio che, in un mondo di scelte, permette di costruire scenari alternativi e di moltiplicare i gradi di libertà. Da alcuni anni, ho intrapreso a puro titolo di conoscenza personale, un cammino di ricostruzione degli avvenimenti che hanno colpito la mia famiglia paterna durante gli anni ‘40. La finalità non è di ricerca storica, ma unicamente quella di tramandare la pura memoria e, non svolgendo né avendo mai svolto alcuna attività politica, la dimensione rimane personale e apartitica.

Negli anni ’60 ho vissuto lunghi periodi della mia infanzia a Monfalcone, dove sono accaduti i fatti e poi, da giovane, ho vissuto per molto tempo con Nonna Maria, moglie di Vincenzo, spentasi centenaria nel 2007. Questa esperienza mi ha dato modo di conoscere e parlare con molti testimoni del periodo in oggetto e frequentare di persona i luoghi.

Mi limiterò ora a riportare e commentare alcuni punti della “ricerca Colaprice” inerenti la figura di Vincenzo Pellicani, che fatico a ritenere oggetto di ragionevoli dubbi.

Non sappiamo in quali condizioni il Pellicani si sia trovato a lavorare per l’Organizzazione Todt….Non sappiamo su quali basi questi possano aver arrestato e deportato il Pellicani….”

Vincenzo emigrò con i suoi fratelli negli anni 20 per cercare lavoro al Cantiere Navale dei Fratelli Cosulich a Monfalcone, un’azienda in forte espansione. Assunto come operaio e acquisite negli anni capacità tecniche e di coordinamento, ricevette l’incarico dalla direzione di gestire il reparto dei fabbri-fuoco, operai “battilastra” specializzati nella preparazione delle lamiere per la costruzione dei battelli di navigazione, civili prima e militari poi.

Dopo il settembre ‘43 il cantiere navale venne assoggettato al controllo tedesco, essendo strategico per la produzione bellica. Gli addetti specializzati furono automaticamente cooptati. Il cantiere veniva bombardato dagli AngloAmericani quasi quotidianamente e la strage dell’hotel impiegati è una testimonianza del rischio al quale queste persone furono costrette a sottoporsi per poter continuare a lavorare e sostenere le proprie famiglie. Non si è trattato quindi di “cittadini che preferivano lavorare per lo sforzo bellico tedesco…” ed è fuorviante descriverla così.

Dedurre da ciò che Vincenzo fosse deliberatamente un collaborazionista tedesco rasenta l’offesa, così come dedurre sic et simpliciter che Vincenzo facesse parte dell’Organizzazione Todt è un’altra forzatura insensata dei fatti. Tutti gli addetti utili del cantiere si ritrovarono giocoforza in quella condizione, centinaia di filo-titini inclusi.

Come italiano Vincenzo fu contro la presenza tedesca, infatti, dopo il 25 aprile 1945, non lasciò Monfalcone, come invece fecero in quei giorni frenetici molti nazi-fascisti e collaborazionisti, ma espose sul balcone di casa la bandiera italiana a simboleggiare il suo forte senso di appartenenza alla comunità italiana. Non espose la bandiera jugoslava con la stella rossa.

I titini oramai erano arrivati in città e la sera del 16 maggio 1945, Vincenzo venne rapito per strada come un civile da militanti italiani filo-titini e slavi, a conflitto terminato. Senza alcun dubbio un crimine rimasto impunito.

Mia nonna Maria, sua moglie, nei giorni successivi al rapimento, si recò a piedi con altre donne nelle simili condizioni fino a Lubiana per cercarlo, attraversando tra mille rischi l’ostile altopiano carsico. Vincenzo non arrivò mai a Lubiana, ma sappiamo che il Carso non ha tombe o fosse comuni ma solo foibe e cavità, nessun dubbio sul suo mancato ritrovamento.

Il Piccolo di Trieste con il numero 57/125  ha pubblicato il 9/3/2006 la lista di oltre 1000 deportati ricevuta dalle Autorità Slovene di Lubiana, in cui lui figura.

Le minacce a Vincenzo iniziarono già nel ’43 quando in un agguato ricevette un colpo di pistola alla mandibola, fortunatamente senza gravi conseguenze.

Il suo reparto di fabbrica aveva una notevole presenza di operari filo-titini, quindi era già fortemente connotato verso il nascente titoismo anti-italiano. Molti di questi operai viveano nello stesso quartiere operaio di Panzano dove abitava Vincenzo; nonna Maria mi indicava ancora negli anni ’80 le famiglie e le case dove dimoravano e dove negli anni si è costruita una pacifica convivenza. Noi siamo stati in Via Cosulich 74 per oltre 70 anni, dal 1929 al 2001.

È noto che le persone oggetto di persecuzione furono soprattutto, oltre a militari e politici, coloro che ricoprivano incarichi di responsabilità in organizzazioni private e pubbliche e componevano  la classe dirigente e dei quadri intermedi. Solo a Monfalcone oltre 100 furono i cittadini civili presi di mira per la nazionalità, il rifiuto del titoismo e le invidie personali legate alla posizione sociale. Furono spesso oggetto di minacce, rapimenti, deportazioni e sparizioni nelle foibe.

Un breve inciso: molti filo-titini, circa 2000 persone, composero poi il “gruppo dei Monfalconesi”, assunti nel ’46 nei cantieri di Fiume e Quarnaro, molti dei quali successivamente furono internati all’Isola Calva. Ritornarono in Italia nel ’48 in fuga dall’utopia. Mio padre e mio zio, come tanti italiani, furono alla stazione ferroviaria di Monfalcone quando il treno di ritorno da Fiume, che riportava i Monfalconesi, transitò senza fermarsi. Le urla di protesta rivolte a quel convoglio furono strazianti.

Riprendo un passo della ricerca:  “In sintesi, si potrebbe concludere che Vincenzo Pellicani fu un civile che lavorò per l’Organizzazione Todt a Monfalcone. Per circostanze non chiare fu arrestato e successivamente deportato a Lubiana, dove probabilmente trovò la morte. Anche in questo caso è difficile ricondurre questa vicenda a quella delle foibe o dell’esodo”. Questa sintesi è superficiale, infondata e fuorviante, quindi per la famiglia Pellicani è irricevibile.

Concludo riportando:… “Non è però un’azione meritoria creare una narrazione pubblica priva di una conoscenza fattuale delle vicende degli uomini che si menzionano…”.

Il vissuto della nostra famiglia è indiscutibile, la mia breve narrazione del 11/2/23 è stata senza dubbio alcuno veritiera e tristemente molto fattuale. Il messaggio rivolto ai presenti è stato autentico e volto a sensibilizzare al tema del ricordo, scevro da strumentalizzazioni e solo per voce di chi ha ereditato quell’esperienza.

Rimango personalmente deluso invece per come una ricerca titolata fondi le sue deduzioni partendo da informazioni personali non corrette e formuli ipotesi volte a sostenere tesi demolitorie dell’accaduto.

Nel caso di Vincenzo, la pura memoria e i dolori subiti da noi familiari portano un’esperienza reale e inconfutabile, al contrario di molte liste che sostengono una guerra dei numeri ormai inutile. Per Mario Chiarulli e Donato Minafra duole non poter portare da parte mia un contributo fattuale, ma sono convinto che la lapide di Ruvo rimanga anche per loro una sana portatrice di valori ad imperituro ricordo».

martedì 7 Marzo 2023

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