Il saggio

Riflessioni sul “monumento” in marmo dedicato a Talos

a cura di Antonio Iurilli
a cura di Antonio Iurilli
disegno incisione; talos morente; diioscuri
Talos morente fra le braccia dei Dioscuri Castore e Polluce. Sullo sfondo Medea, artefice della sua morte (disegno/incisione di Aldo Mastrorilli, in Antonio Iurilli, Agonia di un eroe. Rilettura verbo-figurativa del mito di Talos, dono della Civica Amministrazione e della Pro Loco di Ruvo di Puglia in occasione della riapertura pubblica del Museo Archeologico ‘Jatta’, Ruvo di Puglia 1993 ©)
Nel saggio "L'automa e la maga" l'Autore si domanda se e come la moderna riproposizione del mito possa ricordare eticamente un qualcosa che arricchisca, a futura memoria, il patrimonio etico-civile della comunità che lo accoglie nel tessuto urbano
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“Erano gli Argonauti per giungere all’isola di Creta, ma Talo, uomo di bronzo, scagliando pietre dallo scoglio, li sforzò a tenersi lontani dalla terra. Costui viveva tra uomini semidei custode dato da Giove all’isola d’Europa, e tre volte la percorreva girando intorno intorno coi piedi di bronzo. Ed in tutte le altre membra e parti del corpo era di bronzo e impenetrabile. Ma sotto il tendine intorno al malleolo del piede aveva una vena che conteneva il sangue coperta di lieve tunica, la quale potea divenir l’arbitra di sua vita e di sua morte”.

Così Giovanni Jatta jr. traduce il passo delle Argonautiche nel quale lo storico greco Apollonio Rodio consacra in forma letteraria il mito di Talos, attingendolo da fonti ignote ma copiose.

Non è esaltante la storia di quel mito, assurto dal XIX secolo a eponimo della città di Ruvo per essere stato mirabilmente raffigurato da un figulo, verosimilmente indigeno, su un cratere acquisito alla locale collezione “Jatta”. Quel mito, quel personaggio generato dalla feconda fantasia ellenica, nasce, infatti, come risarcimento di uno stupro: quello consumato da Zeus ai danni di Europa, fanciulla eponima del nostro continente. Ad Europa, avvenente principessa fenicia, da lui posseduta grazie a una delle tante metamorfosi zoomorfe cui ricorreva per sedurre, il re degli dei, pentito per la violenza esercitata, offrì tre doni eccezionali e stravaganti: il cane velocissimo Lelapo; un giavellotto infallibile; e appunto Talos, un automa di bronzo dalla forza smisurata, costruito da Efesto, dio del fuoco e della metallurgia: un semidio dall’imponente corpo metallico, ma privo di sentimenti e di volontà. Ed Europa, divenuta frattanto prima regina di Creta, pose quello stravagante ma prezioso dono a difesa della sua isola, imponendogli di percorrerla costantemente per tenere lontano chiunque ne insidiasse la pace: ubbidiente, appunto, come un automa o una macchina da guerra.

E proprio in questa veste fu Talos ad ostacolare l’approdo a Creta degli Argonauti guidati da Giasone alla ricerca del Vello d’oro: una meritoria azione “militare” di difesa dell’isola da quegli spregiudicati cacciatori che, a partire dal racconto di Apollonio Rodio, ha decretato nei secoli la sua non marginale fortuna. È stata una fortuna letteraria nel recupero narrativo antico dello storico ateniese Apollodoro (II secolo a.C.), e nel recupero moderno, invero assai libero, dello scrittore-archeologo Valerio Massimo Manfredi (Lo scudo di Talos, 1988). È stata una fortuna figurativa nella riproduzione delle sue immaginarie fattezze, oltre che sul cratere rubastino, su monete e su altre figurazioni fittili, anche etrusche. Ma sorprende ancor più la sua fortuna nel classicismo digitale del nostro tempo. Talos è infatti personaggio di alcuni videogiochi (God of War, Total Warrior, Harmony of Dissonance) e di alcuni cartoni, e la sua fama di fantasiosa macchina da guerra ha persino contagiato la cultura militare americana, che ha dato il suo nome a un missile terra-aria della Marina, e ha reso quel nome addirittura acronimo di un progetto americano di uniforme corazzata per l’impiego militare in operazioni speciali. Una fortuna, insomma, quella di Talos, tutta fondata sui suoi poteri soprannaturali, che rimarca il suo destino di combattente, ma soprattutto la sua natura di automa metallico privo di anima, enigmatico nell’essere rappresentato insieme, già dalla cultura greca, come gigante insieme invincibile e sconfitto, ossimoricamente patetico nella sua forza bruta e nella sua fragile immortalità, frutto di un’imperfezione volutamente introdotta nel suo corpo meccanico a limitarne i poteri e la stessa prerogativa di essere immortale: esattamente come l’omerico Achille, col quale Talos condivide persino la parte del corpo nella quale si annida la sua fragilità. Non a caso un altro videogioco d’indole filosofica del nostro tempo (The Talos Principle), lo elegge a simbolo dell’enigmaticità della vita, sottoponendolo a imprevedibili prove crescenti, dalle quali egli esce talvolta vincitore, talvolta perdente.

Questo è, del resto, l’identikit che ne costruisce lo stesso Apollonio Rodio sulla scorta di leggende largamente diffuse, quando espone la sua forza senz’anima alle insidie della passione amorosa: una sorta di archetipo del King Kong cinematografico inventato ai nostri giorni da Merian C. Cooper. Anzi, è proprio il suo ‘umanizzarsi’ per effetto della passione amorosa la chiave di lettura ideologica dell’intero mito costruito sulla sua leggendaria identità.

Lo storico greco sembra voler infatti incarnare in Talos due stili di pensiero vivi nella cultura del suo tempo: l’imperfezione fisica (la vena pericolosamente indifesa dalla sua lorica); l’imperfezione morale (il cedere alle passioni amorose, come cedeva spesso suo “padre” Zeus) del Divino. Sono appunto queste le imperfezioni che causano la morte dell’automa: una morte, “leziosa”, languida, ottenuta senza violenza: proprio la morte rappresentata nel cratere rubastino, quella che spetta a un semidio. Ma un altro diffuso stile di pensiero anima il dramma di Talos: la sua morte procurata dal sortilegio della maga per antonomasia, Medea, che è cifra universale delle perversioni muliebri; della perfidia femminile nel perseguire i suoi oscuri fini; della passione gelosa che prevale sui sentimenti di madre e le fa compiere un efferato infanticidio; dello sconfinato potere di seduzione della donna, capace di decretare la sorte persino di un semidio. È un topos assai radicato nella cultura dell’Occidente: dalla “linea” epica, appunto greco-latina, delle maghe padrone della vita degli eroi, alla metamorfosi cattolica della maga in strega intrisa di peccato.

Il mito di Talos è, insomma, nella penna di Apollonio Rodio (che sicuramente attinge da un retroterra leggendario e mitopoietico ampiamente condiviso), simbolo ideologico dell’imperfezione divina e dalla perfidia muliebre. La sua vicenda è quindi parificabile a quella di un gossip del nostro tempo, con tutti gli ingredienti utili a suscitare morbose reazioni “di massa”. Di qui la fortuna di quel mito nel repertorio figurale dei figuli greci, soprattutto nel repertorio destinato ad appagare i gusti di una committenza aristocratica e colta. I miti, si sa, non nascono dal nulla, ma danno forma artistica a un background di idee, idee che sgorgano da concezioni, da aspirazioni, da pregiudizi: da tutto quello che, intellettualmente e moralmente, una ben definita società elabora all’interno del suo sistema culturale. Ora, il corredo figurale che quei miti attivano è parte essenziale del laboratorio del figulo, chiamato ad ornare i suoi manufatti con rappresentazioni largamente condivise dall’immaginario collettivo. È la rappresentazione figurale di un concetto, di un’idea; è il contrario della tecnica dell’ecphrasis.

Il mito di Talos, semidio imperfetto, sconfitto dalle arti seduttorie di una maga, era dunque tema socialmente condiviso, e dunque figuralmente appetibile, e non è difficile immaginare che esso fosse alimentato sia da un pensiero religioso alternativo a quello “ufficiale”, sia dalla misoginia largamente diffusa nella società magnogreca, da quella misoginia che la poesia ellenistica avrebbe tentato di riscattare rappresentando nei suoi versi raffinati un altro genere di donna, e di rappresentare quella donna idealizzata nella figura polarizzata di Saffo.

Quanto il riproporre tutto questo attraverso un monumento cittadino che riproduca nel marmo le fattezze gigantesche di Talos possa coinvolgere emotivamente ed eticamente la nostra comunità (requisiti imprescindibili perché un monumento abbia un senso per la comunità destinata ad accoglierlo), è argomento di non occasionali né frettolose riflessioni; né può essere affidato ad estemporanee discussioni sostenute da una umorale dialettica che tocchi solo la pianificazione urbanistica del manufatto, dandone per scontata la legittimità, appunto, culturale in senso lato, in nome di una superficiale demagogia acculturante che spesso nutre i fervori della filopatria, o in nome di un ingenuo/scaltro mecenatismo. È argomento che impone, al contrario, innanzitutto la consapevolezza del fine di un manufatto destinato a un impatto pubblico, sul cui valore artistico si può discutere solo dopo averne valutato e condiviso la valenza etica e identitaria in rapporto alla comunità destinata ad accoglierlo, proprio perché il suo valore estrinseco (la qualità artistica) è subordinato al suo valore intrinseco (la qualità morale).

È forse il caso di ricordare che la parola “monumento” è deverbale del latino monere, verbo che ha come significato primario quello di “ammonire”, di ricordare cioè eticamente un qualcosa che arricchisca, a futura memoria, il patrimonio etico-civile della comunità che lo accoglie nel suo tessuto urbano. I dieci significati che di questo lemma elenca il Grande Dizionario della Lingua Italiana, massima autorità lessicografica della nostra lingua, concordano nell’attribuire al “monumento” una capacità emblematica, icasticamente allusiva di particolari valori morali, civili, storici riconoscibili positivamente all’interno di uno specifico sistema socio-culturale, valori che si vogliono conservare e trasmettere forgiandolo con materiali che sfidino le insidie del tempo il più a lungo possibile, e dunque siano capaci di reiterare il messaggio alle generazioni che si susseguono nei luoghi fisici di quella comunità: di reiterarlo grazie a quel bronzo o a quella pietra, la cui durata solo la poesia riesce a vincere, come scrivono, concordi a distanza di secoli e in contesti culturali diversi, Orazio e Foscolo, e come le calamità naturali, le guerre, le devastazioni ideologiche, purtroppo, dimostrano.

È allora necessario domandarsi, al netto dei velleitari entusiasmi che spesso condizionano le intraprese culturali locali, se e come la moderna riproposizione figurale pubblica di un mito maturato in un contesto culturale diverso, di un mito che racconta la sconfitta di un automa divino e la perfidia di una donna, riesca ad assolvere alla funzione, semanticamente ben definita, di “monumento” per la comunità cui si vorrebbe destinarlo.

 

martedì 21 Giugno 2022

(modifica il 29 Giugno 2022, 8:22)

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