Cultura

Carnevale di Ruvo di Puglia: le origini, Mba Rocchetidde e il suo futuro nel saggio di Cleto Bucci

La Redazione
​Il cultore di storia locale parla delle antiche origini e dell'evoluzione del Carnevale rubastino, con le sue maschere, i suoi personaggi, gli aneddoti che restituiscono un vivace spaccato di vita
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Messaggi contro la guerra e invocanti la pace in Ucraina e nel mondo caratterizzeranno, in gran parte dell'Italia, gli eventi e le sfilate allegoriche  del Carnevale che cade domani 1° marzo. Naturalmente nel rispetto delle misure antiCovid. Proprio la pandemia, per il secondo anno consecutivo, ha fermato a Ruvo di Puglia l'organizzazione dei grandi eventi quali la sfilata del calzone e il funerale di Mba Rocchetidde, a cura dell'associazione teatrale "Biagio Minafra". Un approfondimento sulle tradizioni e sulle "maschere" del peculiare Carnevale ruvese è curato da Cleto Bucci, cultore di storia locale, che condivide coi lettori di RuvoLive.it un saggio dedicato a una ricchezza del patrimonio immateriale di Ruvo di Puglia.

«Semel in anno licet insanire. Se una volta all’anno è lecito impazzire, quella volta è giusto il carnevale» esordisce Bucci. «L’origine del carnevale – prosegue – ha radici in feste millenarie e quindi forse  dovremmo rifarci alle feste dionisiache dell’antica Grecia e ai saturnali dell’antica Roma. Sia nell’antichità che nei secoli successivi, queste feste miravano al sovvertimento figurato delle condizioni sociali: il padrone vuole vestire da popolano e il popolano si traveste da signore; il maschio si traveste da femmina e la femmina indossa abiti maschili. Un gioco momentaneo per conoscere e gustare l’ebbrezza del cambiamento.

Il carnevale ruvestino. Del Carnevale ruvestino non abbiamo delle vere e proprie cronache, ma abbiamo cenni documentati che raccontano come per secoli, anche da noi, in questo particolare periodo non si disdegnava di vivere qualche ora o qualche giorno di baldoria e allegria.  Una prima sia pure indiretta documentazione ci viene dalla Platea dell’Arciconfraternita del Carmine laddove nel riportare le Regole della Congrega, approvate da papa Clemente X il 4 settembre 1678, al capo XVIII si legge che una delle due Esposizioni annuali del Santissimo Sacramento sarà fatta nella Domenica di Quinquagesima: "Tutto questo acciò alcuna persona venga al detto Oratorio e si levi da qualche scandalo, che porria succedere, in  quelli estremi giorni di Carnevale, e pregare il Signore, che riduca il peccatore alla conversione, e si faccia buono Christiano".  Ricordiamo al lettore che la domenica di Quinquagesima coincide con l’ultima domenica di Carnevale e che l’esposizione del Santissimo per le cosiddette Quarantore, proseguendo per tre giorni, si concludeva (e si conclude ancora oggi) esattamente il Martedì grasso. Ne consegue che, per contrastare i bagordi carnascialeschi dei ruvestini festaioli, si suggeriva l’adorazione del Santissimo Sacramento nella chiesa del Carmine. Nell’Ottocento, come memoria, ci viene in aiuto Roberto Massone, giornalista genovese e professore  di lettere nell’antico Ginnasio di Ruvo. Nel volumetto Monografia di Ruvo di Puglia, stampato a Genova nel 1871 e ancor prima sul giornale il Commercio di Genova del 1869, il Massone scriveva: "[…] Ho detto di  sopra, parlando dei preti, ch’essi sono assai spregiudicati. Aggiungerò ora che essi hanno molti nipoti, vanno a caccia, cavalcano e prendono parte alle feste carnevalesche. Un mio collega, nel carnevale scorso, intervenne ad una festa da ballo data da un frate nella propria casa". [1]

Appena dieci anni più tardi un'altra notazione sul Carnevale cittadino appare in uno scritto del capo dell’Ufficio d’Arte e Novazioni di Ruvo di Puglia. Chi scrive è l’ingegnere Luca Passaretti che in una relazione, nel segnalare la data e l’ora precisa del crollo della Torre di Pilato, non disdegna di “pennellare” l’avvenimento con quanto accadeva a Ruvo in quei giorni: "Or bene, nella notte dal 18 al 19 (di febbraio n.d.r.), verso le ore 10, come immensa fiera che mette l’ultimo ruggito e spira, la Torre, piegandosi sulla base debole da me additata, con orribile scroscio piombò in frantumi. Non si ebbero vittime umane, ma fu miracolo di Dio, non previdenza di uomini; che senza quella notte oltre ogni dire cupa e burrascosa, senza quella notte dall’ultimo venerdì all’ultimo sabato di carnevale, in cui tutti cercavano un riposo alle veglie trascorse od un apparecchio alle veggenti, in quel sito di abituali convegni, chi sa quali sventure, si sarebbero deplorate".[2] E per “veglie trascorse e apparecchio alle veggenti” dobbiamo certo intendere le manifestazioni carnevalesche in Piazza di Castello. Anche nel Novecento abbiamo notizie e appunti sul locale carnevale. Il primo è Domenico Andrea Lojodice che, nel raccontarci il vivere quotidiano di una normale famiglia ruvestina, tal Rocco S. e Vincenza C. e figli, annota che "Ils fréquentent encore moins les bals publics indécents et immoraux que l’on donne au moment du carnaval, plus par speculation que pour diverter".[3]

Ci piace adesso riportare una poesia del poco conosciuto poeta vernacolare e nostro concittadino Domenico Palumbo Vargas, colonnello nella città partenopea. Il poeta,  pur risiedendo a Napoli, per un carnevale degli anni Venti del secolo scorso, inviò ai suoi compaesani la seguente composizione che pubblichiamo solo nella sua prima parte: U Carnevole. Fò Carnevole n’omene, alliègre e ricche-Pelone/ Amant’assè de balle, de sune e de canzone/ Siémpre se spassaie, la vèjta  squietote/ A timpe de rre ppiézze ca jérne le dequote./ Cresciute e ppò pascìiute, cu tutte la sestanze,/ Da mbacce scettaje fuche, na vuotte ére la panze./ Peffò u munne alliégre, cangiaje, ogne memiènte/ Uocchiere, nose e musse, e tutte u vestemiènte/ Mo staje da Precenielle, mò da Arlecchejine/ E mo da Cip-Ciapp, cu sbrùffe de le Lepjene/ Tu te sentive u core, allegre ppe d’avère/ Fra u passagge du virne a cure de primavére./ Cambaje u munne alliègre, da Cumbà Carnevole/ Vecciere, cose e dduggie, delciir e  speciole/ Eppiure strappenesciaje de le pettore u stuule/ Narducce, don Peppéine, Mamagne, Capriule/ Perciò ci cante e dejsce mmole de Carnevole/ Pozz’éasse, a còpe-fitte, scettote ind’au Meruole/ Percè, arrecoarde, a nniue le timpe assè viòte./ Fecèjele e la Pizizze, cu cchere Mascecarote.

Affinchè qualche verso di questa poesia fosse meglio esplicitato, al manoscritto del Palumbo qualcuno ci aggiunse delle note esplicative che riportiamo pari pari: Narduccio Anelli, i fratelli Caprioli e Peppino Mamagno erano coloro i quali a quel tempo costruivano le maschere. Antonio Fucilli e la Pizizza erano celebri per le loro mascherate: il primo, assai satirico, si riferiva sempre alla divisione dei beni demaniali. Usciva per le vie della città con una cassa da morto che simboleggiava la “cassa comunale” ormai vuota e dilapidata, mentre il secondo, sempre per indicare che il popolo era stato spogliato di tutto, girava “completamente nudo come Adamo”.  Antonio Di Venosa e Tommaso Abruzzese erano specialisti nell’eseguire finte operazioni chirurgiche. Quando il corteo arrivava in Piazza dell’Orologio, proprio sotto il palazzo di Tambone, iniziava l’intervento chirurgico al finto ammalato: sul ventre, ove era nascosta una vescica di maiale piena di sangue, veniva dato il taglio e il sangue realmente usciva a fiotti, ma, con licenza parlando, era sangue di porco.[4]

Una segnalazione sul carnevale cittadino ci arriva anche da Filippo Jatta che, in alcune sue memorie ancora inedite, ci racconta di "[…] balletti pubblici che si aprono durante il carnevale e frequentati dai giovani, che in mancanza dell’elemento femminile ballano fra loro al ritmo della musica […] che […] comitive di maschere si formano nelle piazze e lì al lume delle lampade e al suono del mandolino improvvisano una danza all’aperto, a cui assiste un numeroso circolo di spettatori […]". Per poi concludere: "[…] Il martedì sera si porta in giro Carnevale un gran pupazzo a grandezza naturale imbottito di paglia, la cui morte avviene alla mezzanotte in piazza tra lo schiamazzo dei presenti". [5] Insomma, sfrenate comitive indiavolate che qualche volta si lanciavano in frizzi e lazzi dal sapore vagamente lascivo e che ricordiamo esibirsi lungo i corsi cittadini fino a una sessantina di anni addietro.

Negli anni Sessanta del secolo scorso, a iniziativa dell’Azione Cattolica diocesana – promotore don Vincenzo Pellicani – ebbe inizio un cosiddetto “Carnevale dei ragazzi”. Ogni anno veniva messa in scena, con carri allegorici e gruppi mascherati, una fiaba o un racconto tra le più conosciute dai bambini. Ecco allora la storia di Pinocchio con i suoi moltissimi personaggi e il “Carro del paese dei Balocchi”, la storia di Biancaneve e i sette nani, poi ancora Cenerentola e qualche anno dopo Paperino e Qui Quo Qua. Esperienza molto apprezzata dalla popolazione, ma che si chiuse nell'arco di un decennio.

Il personaggio di Rocco

Dal 2007 la tradizione del Carnevale Rubastino ritornò in auge e prese vigore grazie all’azione e all’inventiva del gruppo teatrale “Biagio Minafra” e all’entusiasmo dell’indimenticato Michele Pellicani. Al consueto corso mascherato con figuranti provenienti da molte associazioni e scuole locali, alcuni eventi collaterali  – quali la sagra del calzone, conferenze culturali, balli di piazza, –   davano credibilità alla manifestazione e facevano ben sperare per il futuro. Purtroppo tutto ebbe fine nel volgere di pochi anni. E mentre Putignano ha il suo Farinella, Bisceglie ha don Pancrazio, Massafra ha Lu Pagghiuse e Manfredonia ha ZePèppe,  il Carnevale di Ruvo, con la sua maschera ufficiale Mbà Rocchetidde, non ha saputo proseguire il suo cammino. Confidando in tempi migliori, anche per quest’anno, insieme a  Lorenzo de’ Medici  non ci resta che cantare:  "Chi vuol esser lieto, sia: di doman non c’è certezza"».

 


[1] R. A. Massone, Ruvo di Puglia, in Il Commercio di Genova, (1869), anche in monografia, Genova 1871,  pag. 19 e nuovamente in C. Bucci, Un caso di Damnatio Memoriae, 2008.

[2] L. Passaretti, 1881                                          

[3]  (Loro frequentano ancor meno i balli pubblici indecenti e immorali che vengono organizzati durante il carnevale, più per speculazione che per diletto). D. A.  Lojodice , Paysan cultivateur de Ruvo di Puglia, Parigi 1908, in Les Ouvriers des deux Monds, Publiés par la Société d’économie sociale, 17° fascicule, pag.30-31

[4] D. Palumbo Vargas, poesie inedite, Bibl. dell’Autore.

[5] F. Jatta, Appunti storici sulla città di Ruvo, ms. ante 1950.

lunedì 28 Febbraio 2022

(modifica il 17 Maggio 2022, 16:16)

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