Teatro civile

Al Teatro Comunale “Medea per Strada” con Elena Cotugno. «Il mito lavora su di noi»

Veronique Fracchiolla
Veronique Fracchiolla
Oggi, alle 20.30. ​«Il Covid non ci permette di fare lo spettacolo in furgone. Ma non vogliamo smettere di raccontare la storia di Medea: ci sembra troppo importante continuare a raccontare la verità»​
scrivi un commento 631

Oggi, alle 20.30, al Teatro Comunale di Ruvo di Puglia (per informazioni e biglietti), andrà in scena “Medea per strada” con l’attrice ruvese Elena Cotugno che ne ha curato la drammaturgia con Fabrizio Sinisi. Per lo spettacolo, prodotto dal Teatro dei Borgia, nonché ideato e diretto da Gianpiero Borgia, Cotugno ha ottenuto, lo scorso 7 settembre, il prestigioso premio “Le Maschere del Teatro Italiano” come Migliore attrice emergente. A consegnarlo Susanna e Carlotta Proietti, figlie dell’indimenticato Gigi, a Villa Campolieto, a Ercolano, dove si è svolta l’edizione 2021, condotta da Tullio Solenghi. Il X Premio è stato conferito agli artisti e agli spettacoli protagonisti della stagione teatrale 2019-2020, prima dello stop da pandemia Covid, e 2020-2021 dopo la ripresa. Ne parliamo con lei. 

Chi è “Medea per strada”?

«Medea per Strada è un lavoro che ha cambiato il nostro modo di fare arte. È nato nel 2016, proprio nell zona tra Ruvo e Corato. Con il regista, Gianpiero Borgia, che gestisce assieme a me la nostra compagnia il Teatro dei Borgia, all'epoca vivevamo e lavoravamo in Puglia, tra Barletta, Corato e Bari. Quasi ogni giorno attraversavamo la strada provinciale 231, più conosciuta come la 98. Ora, quando dici "98" dalle nostre parti, immediatamente tutti pensano alla strada della prostituzione. Sono più di trent'anni ormai che è così. Ci tengo a sottolineare la durata dei trent'anni perchè è emblematico di un luogo, come molti del Sud, nel quale le cose possono restare invariate e sotto gli occhi di tutti per molto, moltissimo tempo. Attraversando la 98, ci dicevamo che non era possibile che quella condizione di schiavitù si svolgesse sotto gli occhi di tutti e nell'indifferenza totale. All'epoca eravamo in procinto di produrre uno spettacolo sulla Medea di Euripide. Mettere le due cose insieme è stato un attimo. Medea per Strada non è un riadattamento di un mito classico in chiave moderna; Medea per Strada è stato un modo per rivivificare il mito e fare in modo che tornasse a esistere tra noi, nella società attuale. Alla fine non siamo stati noi a lavorare sul mito, ma è stato il mito che ha lavorato su di noi, riportando alla luce il senso della tragedia che, in questo caso, era quella di un essere umano esistente ai giorni nostri, che riguardava una problematica attuale e che ci riguardava tutti, esattamente cioè quello che Euripide voleva fare con le tragedie che scriveva. Il modo in cui la tragedia accadeva con Medea per Strada era semplice: facevamo salire sette spettatori alla volta a bordo di un vecchio Iveco Daily. Con loro saliva anche Medea e, mentre il pubblico ascoltava la sua storia, il furgone usciva dal paese e attraversava la 98. La dimensione esperienziale del progetto cambiava lo sguardo dello spettatore, che non assisteva ma partecipava. E l'intento di far crollare la patina di indifferenza nei confronti di quelle donne veniva raggiunto. Attraversando quella strada in una situazione straordinaria e ascoltando la storia di una donna, che era simile alle storie delle donne lì fuori dal finestrino, la visione quotidiana delle cose svaniva e veniva alla luce l'orrore di ciò che ogni giorno ci passa da sotto agli occhi: in questo senso dico che il mito si vivifica. Siamo una società che non è più abituata a esperire una tragedia. La nostra capacità di soffrire e di provare dolore è anestetizzata dalla foga di consumare il dolore stesso in poco tempo, per poi tornare a correre, a lavorare, a produrre. Il tempo che ci concediamo ormai per riflettere sui problemi e per provare dolore è lo stesso tempo che ci mettiamo a scrollare le immagini su instagram. In questo modo non c'è il tempo di metabolizzarlo il dolore e per questo dico che oggi il rapporto con la tragedia, che avevano gli antichi greci, non è più possibile.Non dico che bisogna tornare a fare come facevano loro, ma dico di trovare il nostro modo di convivere con le tragedie del nostro tempo. Io ho imparato a farlo quando abbiamo iniziato il lavoro di ricerca sul campo con le associazioni che si occupano di tratta e di sfruttamento sessuale. Prima fra tutte la Cooperativa Oasi2 San Francesco di Trani. Poi ce ne sono state altre, perchè Medea ha girato mezza Italia e adesso è cominciato il percorso all'estero con le prima repliche a Parigi la settimana scorsa. In ogni luogo in cui facciamo tappa con lo spettacolo, contattiamo gli operatori e gli assistenti sociali del posto. Ci raccontano la situazione di schiavitù del posto, ci portano a vedere le strade, ci concedono gentilmente interviste e ci fanno parlare con alcune donne che lavorano in strada. Questo contatto diretto con la realtà ha cambiato radicalmente il nostro modo di fare teatro. la realtà è diventata la fonte imprescindibile di ogni nostro lavoro. Dopo Medea per Strada sono nati altri due lavori: Eracle l'invisibile e Filottete dimenticato, che parlano rispettivamente di povertà e di abbandono. Anche questi lavori sono frutto di un'indagine sul campo con esperti e professionisti. Abbiamo intervistato chi lavora nelle Caritas, nelle mense  per i poveri per Eracle; per Filottete, abbiamo avuto contatti con le rsa e con il Dipartimento di Neurologia dell'Università di Chieti che si occupa di malattie neurodegenerative negli anziani. I tre lavori insieme, Eracle, Medea e Filottete, oggi costituiscono una trilogia: La Città dei Miti, che si svolge in luoghi non convenzionali, in collaborazione con enti che lavorano nel sociale e che si svolge nell'arco di tutto il pomeriggio e la sera. Si inizia con Eracle, poi il pubblico si sposta a vedere Filottete e, infine, sale su un bus con Medea. In pratica si tratta di una giornata a teatro, esattamente come avveniva nell'antica Grecia dove, per andare a teatro, si partiva la mattina con il pranzo a sacco e si tornava a notte fonda. Il teatro come dimensione esperienziale e non come rito consumistico».

E poi arriva il Premio "Le Maschere del teatro italiano": a chi lo dedica?

«Ho vinto un premio inaspettato che mi ha dato una gioia immensa. Posso essere sincera? Avevo perso la speranza. Nel 2017 e nel 2019 avevo avuto la nomination anche per il premio Ubu, ma per motivi che vi risparmio non l'avevo mai vinto. Mi ero detta che forse questo modo di fare teatro, in strada, intervistando le persone, chiedendo al pubblico di uscire dalla propria comfort zone, entrando in camerino e uscendo dall'ingresso artisti per salire su un furgone, con solo sette spettatori alla volta, forse era più adatto a una platea estera. Mi sono anche sentita dire che non avevo vinto il premio perchè Medea per Strada era l'unica cosa che avevo fatto e ci si aspettava di vedere altri spettacoli. Ma io mi dicevo: "Ma come è l'unica cosa che ho fatto? A me sembra di aver fatto tantissimo!" Dal 2016 Medea avrà fatto almeno 300 repliche, conosco ogni periferia di ogni città in cui siamo stati, abbiamo creato una rete di centinaia di persone che hanno contribuito al progetto di ricerca, ci sono state innumerevoli recensioni positive; con il freddo, con il caldo, con la pioggia e con la neve sono salita su quel furgone, a volte anche per due volte di fila in un pomeriggio, cosa vuol dire "hai fatto solo questo"?. Ricevere il Premio per me è stata una grande gratificazione, un segnale dallo spazio che aspettavo da tanto tempo! Ha significato vedere gratificato tutto l'enorme lavoro di questi anni. Non solo il mio, ma anche quello di Gianpiero, che aveva ideato il progetto, e quello di tutte le persone che hanno lavorato alla logistica, ai trasporti, alla ricerca di contatti, alle interviste, alla tecnica, all'allestimento, alla comunicazione, ai rapporti con la stampa, agli allestimenti, ai costumi, agli attori che hanno guidato il furgone, ai viaggi, alla ricerca dei meccanici, degli elettrauti, dei gommisti, degli autolavaggi. A tutte quelle persone che lavorano h24 nel sociale e che si sono gentilmente offerte di aprirci le porte su un mondo che non avevamo mai nemmeno lontanamente immaginato. Il Teatro è un lavoro, sa? Ed è a tutti i lavoratori dello spettacolo che ho dedicato il premio. Secondo me dovrebbe esistere un premio che ogni anno venga dato a tutti coloro che lavorano nel teatro, nessuno escluso. Ogni anno ti consegnano un riconoscimento per tutto quello che hai fatto. La gente non si rende mica conto della macchina che c'è dietro. Tutti dicono: "È una passione" e io dico, certo, è una passione, ma credete che la passione basti? Servono studio, competenze, concretezza, capacità decisionale. Esattamente tutte le cose che servono in qualsiasi altro mestiere».

Racconti del suo percorso teatrale.

«Ho incontrato Gianpiero nel 2006: studiavo all’Accademia d’arti drammatiche "Itaca", che ha formato molti attori che oggi lavorano sulle scene nazionali. Gianpiero era il mio insegnante. Proveniva da una formazione di impronta russa stanivslaskijana. I suoi maestri, che successivamente sono stati anche i miei, erano Jurij Alstchitz e Anatoli Vasil’ev.  Ho seguito Anatoli Vasil'ev per il resto dei miei anni di studio. Ho fatto anche altre esperienze , ma posso dire che lui è stato il mio maestro. Ora non voglio uscirmente con la solita solfa che oggi i ragazzi non hanno più maestri di riferimento, che è sicuramente vero e anche grave. Vorrei, però, rivolgermi agli insegnanti; è vero che non ci sono maestri ma è anche vero che oggi molto difficilmente ci si assume la responsabilità di diventarlo. Essere un maestro significa assumersene il ruolo nel bene e nel male. I maestri incarnano molte figure, quella del leader, quella dell'insegnante, quella del padre o della madre. Non è facile diventare tutte queste cose per qualcuno. Inoltre, come qualsiasi leader, come qualsiasi insegnante e come qualsiasi genitore, a un certo punto devono accettare l'emancipazione dell'allievo e questo è un percorso molto lungo e doloroso per entrambi ma necessario. Non so se oggi ci siano insegnanti che abbiano il coraggio di diventare maestri».

Lo scorso 31 luglio, a Ruvo di Puglia, durante l'inaugurazione del Nuovo Teatro comunale, mentre piantava un ulivo ha fatto un monologo sul lavoro teatrale. Il teatro e il suo mondo vanno curati e coltivati, dalle Istituzioni e da ogni persona…

«Ho partecipato con entusiasmo e gioia all'inaugurazione del teatro Comunale di Ruvo. Trovo che "la chiamata alle armi " fatta da Michelangelo (Campanale, ndr) e Katia (Scarimbolo, ndr) sia stata una vero atto di coraggio. Non dico che aprire un nuovo teatro oggi sia paragonabile all'andare in guerra ma certamente bisogna dotarsi delle armi giuste e del giusto equipaggiamento. E quale esercito migliore se non quello degli artisti del territorio nazionale e internazionale? Il teatro è fatto da persone e la presenza è una condizione imprescindibile. L'essenza del teatro è la condivisione di un atto in presenza, possibile solo attraverso l'impiego di corpi. Il teatro è l'arte più concreta. Come dice Milo Rau, regista svizzero di fama internazionale, "la si chiama arte rappresentativa perchè il teatro è un'arte del corpo, dell'incontro, della presenza. È semplicemente impossibile fare teatro prescindendo da queste condizioni fondamentali dell'umano stare al mondo". Per l'inaugurazione del teatro Comunale di Ruvo ho voluto piantare un ulivo nel giardino del teatro. Il mio era un gesto di buon auspicio. Ho pensato che l'ulivo è il simbolo della nostra terra e, in particolare, del lavoro della nostra terra. Volevo che qualcosa che ricordasse il lavoro in termini pratici, semplici e immediati, venisse piantato lì a ricordare che anche per chi lavora in teatro valgono gli stessi principi di lavoro. Volevo che al pubblico e anche alle istituzioni, fosse chiaro che quelle pareti, quel terreno e quegli spazi sono e saranno luoghi di lavoro. Che, se oggi possiamo erigere un teatro, lo dobbiamo a chi, come noi, ha lavorato sodo negli anni passati. Poi piantavo un cartello con una frase tratta dalle "Tre sorelle" di Anton Cechov, che diceva: "Io lavorerò. E tra venticinque, trent'anni, tutti lavoreremo". Sono molto contenta per questa sera: purtroppo il covid non ci permette di fare lo spettacolo in furgone. Ma non vogliamo smettere di raccontare la storia di Medea: ci sembra troppo importante continuare a raccontare la verità. E poi torniamo nei luoghi di origine dello spettacolo».

Altri progetti?

«Con la nostra compagnia, TB (Teatro dei Borgia), per il prossimo triennio, oltre a portare avanti il progetto della Città dei Miti, abbiamo appena aperto un progetto di ricerca sulle tematiche legate al lavoro che abbiamo chiamato Il lavoro sul lavoro, dal quale nasceranno nuovi spettacoli. In particolare abbiamo in cantiere un lavoro sulla figura di Giacomo Matteotti, nato da un progetto che avrebbe dovuto debuttare nel 2020 ma che il Covid ha purtroppo interrotto. Poi vorremmo mettere su uno spettacolo corale sulle tematiche del lavoro, partendo da interviste a lavoratori e da testi e saggi classici come per esempio il Manifesto dei Partito Comunista di Carl Marx. Infine, un altro lavoro corale su una vicenda avvenuta il 3 ottobre 2011 a Barletta, quando ci fu la morte di cinque operaie di tomaificio causata dal crollo della palazzina nella quale lavoravano».

 

 

domenica 14 Novembre 2021

Notifiche
Notifica di
guest
0 Commenti
Inline Feedbacks
Vedi tutti i commenti