Cultura

Rinascere dagli occhi di una bambina disabile. “Madri” di Chiara Scardicchio e la grazia di una nuova visione di vita

Francesca Elicio
L'autrice racconta di come si è scrollata il senso di arroganza e onnipotenza per dedicarsi alla bellezza dell'esistenza e dell'effimero
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Occhi lucidi, luminosi. Voce dolce ma forte. Parole leggere, capaci però di arrivare dritte al cuore di chi ascolta. E un sorriso sincero, limpido, pulito. Senza finzioni. Un sorriso che non ha bisogno di mostrare i denti perché lo si legge perfettamente negli occhi.

Monica Filograno ed Elena Silvano Saponaro non hanno semplicemente introdotto la presentazione di un libro. Hanno introdotto una magia che si sarebbe di lì a poco assaporata nell’aria, hanno introdotto una donna colta, studiosa, affermata; ma non era questo ciò che serviva realmente. Hanno introdotto una mamma che ha cambiato la sua vita grazie alla presenza di Serena, la sua bambina. «Ciò che ci racconta è forte e pregnante per una mamma ma non solo; è forte per tutti coloro che hanno generato qualcosa, che sia pure un piatto di pasta», ha affermato la direttrice del museo Jatta.

Chiara, una mamma come tante altre. Che affronta un problema che purtroppo affrontano molte altre mamme, quello della disabilità del proprio figlio. Ma Chiara ha una cosa che le altre mamme non hanno: la voglia di danzare, la voglia di essere viva.

L’autrice è riuscita a pubblicare quello che per molto tempo è stato il suo diario di bordo, tenuto nel cassetto e custodito insieme ai suoi pensieri. In quel diario c’è la storia della sua Serena, della bambina che ha immaginato sin da quando era piccola. Della bambina che però ha avuto difficoltà con quelle che per sua mamma sono state lo scudo di una vita: le parole. Sì, perché Chiara con le parole ha vissuto, con le parole ha intrapreso il suo percorso, si è rinforzata e con loro si è salvata. L’ironia della sorte però la mette di fronte a una bambina con una ritardo mentale e una grave forma di autismo: in cinque anni è riuscita a pronunciare una sola parola.

Cosa accade in queste circostanze? «Ci si sente un senso di nudità, si pensa di aver perso tutto», ha detto l’autrice. «E’ quel senso di impotenza che abbiamo al cospetto di qualcuno che amiamo ma che non possiamo aiutare. Ho studiato sempre troppi libri, ma nessuno mi è mai servito. In quegli istanti, attraverso le citazioni tipicamente baresi di una mia zia, ho capito che è la vita che sceglie per noi, noi non possiamo nulla».

Chiara Scardicchio parla del senso di arroganza che l’ha travolta e che travolge tutte le mamme che, nel momento del dolore, credono che il proprio sia più forte e ignorano quello degli altri. Mamme che credono di sapere ciò che serva per la felicità del proprio figlio. E inconsciamente, vivono dell’occhio riflesso di chi hanno imitato durante la loro formazione. Chiara si è sentita tanto sua madre quando vedeva sua figlia come qualcosa che non andava; la guardava con dispiacere, credeva di possederla sapendo cosa fosse la felicità per la sua Serena. Ma la stessa Serena è riuscita a toglierle questa arroganza.

L’errore più grande che una mamma può fare è quello di credere di avere sempre tutto sotto controllo. Chiara l’ha capito quando sua figlia è riuscita a rimanere ferma per più di un’ora, imbambolata dalla bellezza di un insegnante. Nulla si può controllare, nulla può permetterci di sentire l’onnipotenza, è proprio questo caos che crea angoscia e resa.

«Da lei ho imparato a essere viva. Ho capito di aver vissuto la mia vita solo nella testa, alla ricerca di qualcosa che debba colmare. Mi hanno insegnato a maledire le cose che andavano male, a vivere una vita sempre con la tristezza o a essere perennemente incazzata. Serena invece non vive nella sua testa, Serena è radicata nella vita. Ed è felice. Nell’attimo in cui accerto la mia impotenza creo qualcosa di fertile e pongo l’attenzione su cose apparentemente futili che danno un senso di vita che abita nelle cose piccole.

Nella tradizione si dice spesso “proprio a te Dio doveva dare questa punizione”: il buon Dio ci punisce non per sadismo ma al contrario: ci colpisce nella nostra dimensione più intima – per me erano le parole – per trasfigurarla e trasformarla in rivoluzione, per farci capire il reale significato delle cose. Fagocitare il proprio figlio vuol dire non fidarsi di lui. Per questo io parlo di “madri”, di tutti quegli uomini e quelle donne da imitare, di quegli uomini e quelle donne che morte prima di morire hanno capovolto l’intera situazione».

Gli studi dell’autrice si sono concentrati soprattutto sul connubio tra maternità e dolore, presentando una metafora tratta dalla Bibbia: solitamente si raffigura la Madonna Addolorata in quanto le muore il figlio. Ma Lui poi risorge. Perché allora questa donna non è raffigurata come danzante, dopo la resurrezione? «Mi sono interrogata sullo sguardo che avevo su Serena e sullo sguardo che lei aveva su di me. Mi sono chiesta allora: io cosa desideravo da mia madre? E mi sono ricordata che volevo vederla felice. Volevo uno sguardo che mi guardasse e mi dicesse: sono felice che tu esista. Volevo che danzasse: danzare vuol dire perdere equilibrio, stare sotto il giudizio altrui. Per me prima era impossibile accettare il non saper fare qualcosa. Oggi vivo con la consapevolezza che i momenti negativi ci sono, ma appena terminano bisogna ripartire nuovamente e si ricomincia a vivere. Abbiamo la libertà di decidere cosa poter fare, se disperarsi o passare all’atto successivo, capire cosa poter fare. In tutto bisogna costantemente cercare la bellezza, con lei non si muore. Prima guardavo Serena come un’opera d’arte classica, oggi come un’opera surrealista: prima ti appaiono le linee storte, poi quelle linee ti fanno meditare su qualcosa di più profondo e misterioso come la poesia. Oggi posso dire di star imparando a danzare grazie a una bambina che per mia zia è una disgrazia, per me è una grazia».

giovedì 22 Settembre 2016

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