Cultura

Le farfalle non muoiono in cielo

Nico Andriani
Presentato il libro della giornalista Barbara Schiavulli nell'auditorium del Liceo Tedone
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Al Liceo Scientifico “Orazio Tedone” è stato inaugurato il Progetto Lettura per l’anno 2005/2006 con la presentazione del volume “Le farfalle non muoiono in cielo” di Barbara Schiavulli.
L’istituto superiore infatti predisporrà anche quest’anno, come fatto l’anno passato, un piano di incontri letterari stimolati da un gruppo di studio formato da ragazzi, che si inserirà all’interno dell’anno scolastico corrente, in collaborazione con le associazioni culturali locali.

La giornalista freelance di guerra ha presentato il suo primo lavoro editoriale alla presenza del prof. Pappagallo e della direttrice della casa editrice La Meridiana, con sede a Molfetta, Elvira Zaccarino, la quale vede in questo libro una delle finestre per guardare la Terra dalla prospettiva della nostra terra, la Puglia, ripercorrendo i temi della pace e della guerra per trovare una prospettiva di conciliazione, seguendo la propria politica editoriale da 20anni, la Pace nella terra di don Tonino.

La giornalista in questo lavoro ha raccontato la sua esperienza di vita in Palestina attraverso gli occhi di due ragazzi protagonisti, un’aspirante kamikaze e un soldato israeliano dal cui incontro entrambe le loro vite rimarranno indissolubilmente legate al di là degli anni, e la propria difficile posizione di giornalista che deve attenersi ai fatti, e si astiene da giudizi morali in ciò che succede.

Nel libro è possibile ritrovare le voci dei genitori intervistati e quelle delle vite dei ragazzi vittime della seconda Intifada, e se bisogna trovare delle colpe o dare dei giudizi, queste devono ricadere sui politici ma non sulla gente, ignara protagonista ma soprattutto vittima di giochi di potere molto più grandi di loro.

La mattinata si è articolata in un costruttivo dibattito tra i ragazzi e la Schiavulli, che ha dimostrato come la questione medio-orientale sia una realtà che stimola i ragazzi e li pone delle problematiche: come sia possibile ad esempio che un ragazzo palestinese come loro sia capace di scegliere la strada del kamikaze, i quali sono gli unici modelli a cui tali ragazzi possono ispirarsi, in quanto essi sono il simbolo della resistenza ai soldati israeliani, che sono il nemico, e come sia possibile che queste figure diventino eroi anche agli occhi di una madre che ha perso così il proprio figlio, e che soffre lo stesso dolore di una madre israeliana che perde i propri figli in un attacco kamikaze.

Nell’occasione è stato possibile rivolgerle alcune domande: 

Leggendo il libro, mi sono scorse davanti le immagini dei conflitti in Iraq, degli ostaggi e delle loro esecuzioni in diretta, e ho ritrovato l’elemento comune del fondamentalismo, religioso ed economico.
Anche Arin nel libro dice di aver passato la sua vita da adolescente frutto dell’odio alimentato dalla tv e dagli Imam. Come può l’effetto dei media, anche da noi, alienare così tanto la realtà?

Sia i giornali che le tv non hanno interesse a spiegare quello che succede, e scagliano gli eventi nei loro palinsesti solo per fare scalpore e aumentare l’audience, e le notizie che diffondono sono poche e non rappresentano la totalità. Il problema è dare voce alla gente di ogni giorno, e fare in modo che le persone inizino ad essere meno superficiali, ad essere più critiche e a chiedere. La gente non è stupida, e se non viene data loro la verità, se la vanno a cercare.

La figura del kamikaze che viene presentata è molto romantica, Majed, il ragazzo complice di Arin che si fa saltare in aria all’inizio del libro, alla fine è solo un ragazzo che ha gli stessi pensieri di tutti i ragazzi, e vorrebbe dire ad Arin che gli piace, ma è troppo timido; in qualche modo va contro la figura stereotipata che abbiamo di loro, la sua è stata una scelta ben precisa?

I kamikaze in quei luoghi distrutti dalla guerra hanno raggiunto un elevato fascino, ma nella realtà sono solo dei ragazzi come tanti altri, spaventati e soprattutto disperati da tutto ciò che li circonda e non vorrebbero.

Le vite dei protagonisti vengono sconvolte dall’Intifada e Daniel alla fine dopo essere stato soldato diventa psicologo. Lui non crede nella cattiveria ma la spiega come una reazione alle circostanze. Quel Daniel è lei che assume questo atteggiamento?

Daniel è presente per aiutare e far capire agli altri come lui come non valga la pena spargere tanto sangue innocente. Daniel è presente in ogni persona che intervisto, e si ispira a tanti ragazzi con cui ho avuto modo di parlare e di discutere, perché sono esperienze che travolgono qualsiasi ragazzo.
Nello stesso romanzo non di parla mai di Israele e Palestina, eppure la storia si capisce che si svolge lì.
Tutti pensano di avere ragione e invece sbagliano. Arin, che si risente vive a 50anni, dice che per i ragazzi di oggi c’è bisogno di una nuova risposta al di fuori della guerra, eppure c’è Keren, che ha passato tutta la sua vita su una sedia a rotelle aspettando di vendicare la morte di sua figlia. Alla fine i protagonisti e le vittime di inizio romanzo si ritrovano a fine storia a parti invertite, come un cerchio che si chiude. Tutto questo è un’allegoria della situazione che vivono adesso Israele e Palestina?

La stessa storia di Israele e Palestina è circolare, si basa su accordi, rottura di tali accordi e nuovi accordi.
Anche Sharon adesso ha lasciato il partito che aveva fondato perché si è reso conto che le scelte dure non hanno portato a niente, come sta scritto nel libro, quando si è tentato tutto anche la pace sembra una prospettiva plausibile. Purtroppo la gente di quei luoghi non è lungimirante, pensa all’oggi e non al domani.

Eppure in questa cornice di guerra e morte, è possibile rintracciare una speranza di vita,una farfalla su un filo spinato.
Infatti, la chiave del romanzo è proprio quella. Se tutto è il contrario di tutto, se una madre può decidere di diventare un’assassina e una ragazza che aveva deciso di portare la morte cambia idea e seppur morendo vittima dello stesso odio decide che è valsa la pena vivere e rincontrare il ragazzo che l’aveva salvata 30anni prima, allora la pace stessa è ancora possibile in Palestina.

La campagna di presentazione del libro l’ha portata a girare molti luoghi, e in chiusura le vorrei girare la domanda di un dibattito tenuto a Sommacampagna dal titolo Israeliani e Palestinesi, un dialogo possibile?

A Sommacampagna è stato avviato un esperimento di convivenza fra 25 ragazzi Israeliani e Palestinesi provenienti da Jenin e Tel Aviv per una settimana.

La prima reazione dei ragazzi palestinesi è stata “questi ci rubano tutto!” eppure imparando a convivere insieme sono tornati alle loro case promettendosi di sentirsi almeno telefonicamente, vista la difficoltà di mantenere i rapporti in Israele. Forse saranno gli unici perché i contatti fra Israeliani e Palestinesi sono solo a livello politico, mentre a livello umano sono a carattere di scontro kamikaze/soldati. Alla fine però le persone, da qualsiasi luogo provengano, sono sempre uguali.

Israeliani e palestinesi sono legati da molti aspetti, i primi sono sempre alla moda e sembrano ricchi al contrario degli altri, ma la verità è che vivono la stessa situazione economica, e il rilancio delle loro economie dipende in maniera congiunta dai soldati israeliani e dai politici palestinesi.

giovedì 1 Dicembre 2005

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